Un Amore di malattia.

La malattia è una cosa strana. No, non l’influenza o il raffreddore, la malattia quella vera.

La malattia è alzarsi la mattina sicura del tuo matrimonio che va avanti da anni in una routine che ormai sembra non ti appartenga più. È aprire il cassetto di tuo marito e trovare una sua lettera per un caro amico in cui dice di volersi separare da te.

Separare? Com’è possibile? Non ti sei mai accorta di niente, non hai mai notato atteggiamenti diversi dal solito. Forse è proprio questo il problema, hai smesso di accorgerti di lui.

Avrai due scelte, dipende solo da te: potrai arrabbiarti, urlare fino a farti mancare il fiato, rigargli la macchina, bucargli le ruote della moto, pulire il water con il suo spazzolino da denti e usare i suoi vestiti come legna per il camino. Odiare quel referto fino a non riuscire a pronunciare le parole stampate sopra. Potrai aspettare che torni da lavoro e urlargli in faccia che è uno stronzo, che maledici il giorno in cui te ne sei innamorata anche se a ben pensarci forse non l’hai mai amato davvero ed è stata tutta colpa di tua madre, che tu avresti voluto sposare il tuo compagno di banco dell’asilo, che avresti voluto vivere una vita diversa e te ne accorgi solo ora che ti vita forse non te ne resta poi tanta.

E forse questo ti farà subito sentire meglio, non ti farà fermare a riflettere sulle mancanze che tutti, in fondo, abbiamo e su come colmarle. Tutto il tuo dolore sarà concentrato nell’odio profondo verso tuo marito ed in men che non si dica ti ritroverai in una casa nuova, vuota, fredda.

Non ti sfiorerà mai l’idea che quella lettera forse era stata scritta di pancia dopo un litigio ed è per questo che non aveva francobollo, che probabilmente non sarebbe mai stata spedita e che si guarisce innanzitutto nella testa. Mai potrai pensare che per una cazzata ti sarai rovinata la vita, che hai disertato prima ancora della chiamata alle armi.

Oppure potrai piangere, piangere a lungo restando immobile a pensare a quella volta che non gli hai dato una carezza, a quando lui ti aveva chiesto di fare l’amore e tu ti sei inventata troppi mal di testa. Certo lui non è perfetto ma ciò che davvero si ama sono i difetti, con i pregi siamo bravi tutti.

Riporrai la lettera nel cassetto dove l’hai trovata, uscirai a comprarti un vestito nuovo, proverai a cucinare il suo piatto preferito senza che ci sia un’occasione speciale, proverai ad amare più forte la sua ruga sulla fronte, proverai a sorridergli anche quando è arrabbiato, proverai ad estrarre il succo del vostro amore togliendoti la scorza indurita dal tempo, proverai a sorridere anche col male dentro. Proverai e non ci sarà nessuno a dirti che ce l’avrai fatta, nessuno. Ma scoprirai giorno dopo giorno che amando di più in fondo ti amerai di più, che vivere per la malattia è un paradosso bello e buono, che l’amore e la vita non sono solo fortuna, sono compromessi, sorrisi e a volte medicinali. E se lui ti guarderà innamorato come un tempo allora i tuoi sforzi saranno valsi la pena e sarà vero che il bene che si fa prima o poi torna indietro, che anche la malattia può regredire. Imparerai però soprattutto ad accettare che ciò che rende grandi sono le sconfitte a patto che ci sia stata una battaglia. Ed è allora, solo allora, che se anche lui rimanesse inflessibile davanti al tuo amore, che se anche il tuo male non si dovesse fermare, avrai perso ma l’avrai fatto col sorriso. E non ci sarà separazione che potrà cancellare l’amore che avrai messo nei piccoli gesti, non ci sarà referto che rovinerà le piccole gioie di una battaglia combattuta con i fiori e senza cannoni. Ti siederai a scrivere e ti sembrerà che i tuoi fantasmi siano seduti accanto a te nella poca luce dello scrittoio, proprio sopra la tastiera. Imparerai a chiamarli per nome e forse, col tempo, faranno sempre meno paura così che quando arriverà il giorno in cui non dovrai più avere paura, ecco quel giorno l’ultima espressione sul tuo viso sarà un sorriso rilassato e non gli occhi stretti nell’odio.

Corso di cucina per amanti inesperti.

Caro Amore,

ti avevo preparato una torta per stasera, una torta con mele e cannella come piace tanto a te.

Mi sentivo così felice mentre la vedevo lievitare, mi sentivo così felice mentre quel caldo profumo si diffondeva nell’aria come musica in un giorno silenzioso.

Era bellissima con quella crosticina così fragile, mi sono persa a guardarla.

Sei la mia primavera, Amore. Averti accanto mi fa venir voglia di essere migliore, di fiorire da un piccolo ramo secco in cui il sapiente giardiniere ha creduto, in cui tu hai creduto sin dal primo istante.

Ti chiederai dove avrò nascosto la torta di mele, avrai alzato velocemente lo sguardo per cercarla.

Non la troverai, l’ho buttata.

Sapeva di copertone con un pizzico di cannella. Ci ho messo così tanto amore nel prepararla che mi è venuto da piangere quando l’ho assaggiata.

Forse l’amore da solo non basta, forse ci vogliono altri ingredienti. Eppure ho seguito la ricetta passo passo, farina, uova, latte, zucchero e lievito. C’era tutto. Anche le mele e la cannella. Setacciare, mescolare, infornare. Forse ho sbagliato la cottura, forse sbagliamo senza rendercene conto.

Ma come fai tu a cucinare così bene, ma come fai tu ad amare così bene? Hai frequentato dei corsi, chi è il tuo maestro? Mi hai insegnato così tante cose che avrei voluto dimostrarti di essere all’altezza, alla tua altezza. Hai rotto i miei muri in punta di piedi ed io invece ho rotto i vasi del salotto mentre urlavo contro me stessa. Mi hai abbracciata mentre tremavo in un angolo e non ho saputo far altro che spingerti lontano. Ma tu sei tornato e mi hai tolto quell’odore selvatico che odiavo così tanto da averlo fatto mio e adesso profumo di torta al cioccolato.

A volte mi chiedo come tu faccia ad amarmi, come tu possa vedere il Sole oltre le mie spine. Semplicemente lo fai. E vedi forse è proprio questo, forse è che mentre setacciavo la farina mi sono cadute alcune spine velenose, non hanno più motivo di proteggermi, non ho motivo di proteggermi da te. E forse sono quelle spine a rovinare le torte, a rovinare l’amore. Ma ho deciso che non voglio compatirmi, voglio capirmi insieme a te. Così ho buttato la torta, l’ho buttata per strada e ho aperto le finestre per non lasciare nemmeno un’ombra di quell’odore amaro.

Sono uscita a ricomprare la farina, il latte, le uova e la cannella. Mettiti il grembiule Amore, fammi un corso di cucina per amanti inesperti.

Stanza 416

Abito in un hotel. È strano a dirsi, più strano ancora a viversi.

Abitare in un hotel, soprattutto se per lavoro, è estraniante. Quanti di voi si mettono il completo per prendere il caffè al mattino? Io lo faccio, non dispongo di una cucina. Quanti di voi vedono Sergio il concierge, e giuro che non è uno squallido gioco di parole, più della propria madre? Salvo che tu non sia la moglie, la figlia o l’amate di Sergio, credo che la risposta sia “io no”. Ritengo utile premettere che non sono un gigolò, una escort, una dominatrice e via dicendo.

Sono un consulente.

Fare il consulente significa fare molti lavori insieme. Innanzitutto l’agente commerciale Samsonite, ho così tante loro valigie che potrei essere sul loro libro paga honoris causa. In secondo luogo testo i mezzi di trasporto nel week end. Potrei farvi un report completo su chi sia meglio tra Trenitalia e Italo, su come si chiami e quale sia il codice fiscale dell’hostess Alitalia del volo delle 20:00, su quali snack valga la pena assaggiare e quali sia meglio evitare prima di un meeting. Lo so, avrei dovuto dire “riunione” ma tra noi consulenti se non inserisci un termine anglofono ogni sei parole paghi da bere, è una legge non scritta ma tremendamente applicata. Ah, durante la settimana naturalmente vado dal cliente di turno il che, diciamocelo, ricorda molto il lavoro di una prostituta. Ma io lo faccio con le cravatte di Marinella. Filo di seta ritorto a mano, mica reggicalze di pizzo cento per cento plastica del cinese alla stazione.

Definirei la mia vita sostanzialmente monotona. Vado in molte città visitandone solo gli alberghi in cui alloggio, prendo più aerei che caffè, cambio più cravatte che fidanzate. Ho sviluppato una notevole abilità nell’inquadrare le persone al primo sguardo. A forza di dover analizzare numeri sono finito ad analizzare anche inconsapevolmente tutto ciò che mi circonda. E ci prendo spesso.

In un ristorante so immediatamente individuare chi è al primo appuntamento, chi è a cena per l’anniversario di un matrimonio che lo annoiava ancora prima del sì, chi sta per fare la proposta, chi è a cena con l’amante. E fidatevi, non sbaglio.

L’altra sera, come  tutte le sere, stavo gustando il mio whiskey nella hall. La coppia che sedeva nel tavolino accanto al mio era senza dubbio di neurochirurghi. C’è un convegno in questi giorni e la città in cui mi trovo non è di sicuro un luogo turistico e, soprattutto, questo non è un albergo turistico.

Parlavano di poesia, lei aveva lunghe mani sottili e un vestito nero estremamente serioso. Lui aveva un completo anonimo, non ricordo esattamente il colore.

Colleghi, vecchi compagni di università. Lui sicuramente proveniva da una famiglia di medici, il padre l’aveva dispoticamente indirizzato verso la chirurgia e lui si era trovato a vivere una vita che sentiva non appartenergli, un po’ come quel suo brutto completo. Lei era la secchiona, quella a cui tutti chiedevano appunti, chiarimenti, suggerimenti durante gli esami. Aveva indubbiamente visto più lodi che uomini nudi ma la medicina, si sa, non ammette rivali in amore.

Ritenendomi più che soddisfatto della mia impeccabile analisi, ho deciso di andare a dormire. C’è stato un momento in cui nessuna persona solitaria vorrebbe trovarsi, il momento in cui prendi l’ascensore con una coppia di sconosciuti. I neurochirurghi pseudo poeti stavano salendo con me e lui, galantemente, le stava proponendo di bere l’ultimo bicchiere in camera sua così da ripassare insieme l’intervento per il congresso.  Erano neurochirurghi dunque, punto per me. Lei, come previsto, si è impercettibilmente irrigidita ma la sua gentilezza ha finalmente prevalso sul suo animo bacchettone ed ha accettato. Caso vuole che l’allegro chirurgo alloggiasse proprio nella stanza accanto alla mia, stanza 416, e con un sorriso pieno d’imbarazzo ci siamo congedati sulle rispettive porte. Lui ci avrebbe timidamente provato, lei si sarebbe, al massimo, lasciata baciare e sarebbe fuggita come una dodicenne al momento di concretizzare. Lui avrebbe bevuto un ultimo bicchiere da solo ripetendosi che se almeno avesse fatto ginecologia qualche donna senza mutandine l’avrebbe vista.

Mi piace inventarmi queste storie, mi piace perché ho sempre ragione. Più che altro non ho nessuno che mi contraddica. Avere ragione ha per me un effetto più calmante del Minias, dormo come un bambino. Credo di essermi addormentato dopo trenta secondi, massimo quaranta.

È successo verso le 4:00. Mi sono svegliato di soprassalto. Pensavo di essere finito in un film splatter di pessima fattura. Svegliato da un urlo, che trama banale. Quando già stavo per chiamare la polizia ho realizzato tuttavia che quelle erano urla, sì, ma di piacere. Hai capito la secchiona. Un secchio pieno d’alcol più che altro. Dopo aver pregato affinché i muri della stanza non cedessero di colpo, dai colpi sarebbe meglio dire, stavo quasi per riaddormentarmi deluso per la mia pessima prestazione da indovino quando la poetessa si è risvegliata.

Neruda scrisse una poesia dal titolo “La poesia” che recitava “la poesia venne a cercarmi… non so come né quando…”. Dev’essere proprio così che succede. Mentre passeggi, mentre bevi un caffè, mentre parli con una sconosciuta in discoteca. È lì che arriva la poesia, è lì che ti assale come un borseggiatore sapientemente nascosto dietro gli angoli bui.  La poesia venne a cercare la neurochirurga in una quiete notte di Dicembre in un mediocre albergo di provincia dopo una notte d’amore non programmata. Fu spontanea, il primo verso uscì naturale come un colpo di tosse dopo il primo tiro di sigaretta, come uno starnuto quando guardi il Sole. Fu durante quella notte che capii che io le persone non le avevo mai capite, che l’apparenza non descrive l’essenza. Fu in quella notte che, dopo un orgasmo, la neurochirurga rispolverò un accento ciociaro mascherato da anni di impeccabile dizione, il cuore non ha “e” aperte che tengano. Fu in quella notte, dicevo, che la frigida secchiona ormai chirurgo urlò con tutto il fiato che aveva nei polmoni “il tuo cazzo è una benedizione”.

La poetessa mi provocò il riso fino alle lacrime e, quando ormai avevo i crampi agli addominali, riuscii a riaddormentarmi.

Avere torto non era mai stato così divertente.

 

 

Ps. La storia è liberamente ispirata a fatti realmente accaduti. Ci sono storie che meritano di essere raccontate e questa è una di quelle.