I soliti buoni propositi

Mi piace questa tradizione dei buoni propositi per l’anno nuovo. In pratica, dopo la lettera a Babbo Natale, uno deve fare la lista di ciò che intende fare nel nuovo anno. Tipo un business plan della propria vita.

Investirò di più nei sentimenti, metterò in cassa integrazione lo shopping, investirò su amici, vino e cibo buono.

Mi autotasserò ogni volta che dirò una parolaccia ed userò quel tesoretto per farmi una vacanza in barca.

Ottimizzerò la produzione studiando di più e diminuendo le pause caffè ottenendo così un guadagno al netto della soddisfazione pari a circa millecento sorrisi in più al mese.

Taglierò il tempo perso a farmi problemi inutili investendo un paio d’ore a settimana dedicate alla ricerca delle risposte alle grandi domande sull’universo.

Comprerò dunque un bel cappotto per prepararmi al nobel per la matematica che dubito vincerò. E non lo vincerò perché un’amante di Alfred Nobel se la faceva allegramente con un mago del 2+2, mister Magnus Gustaf Mittag-Leffler, e per colpa della sua bacchetta magica io non potrò mai diventare la prima donna a vincere il nobel per la matematica.

Mai mischiare sesso e affari, sempre detto.

Assumerò nuovi atteggiamenti proponendo una politica aziendale di gentilezza con il prossimo, promuoverò progetti di team building con week end al lago e in montagna.

Metterò l’arte al primo posto per far sì che il lavoro s’ispiri sempre alla bellezza, mi batterò per la vittoria del buon gusto sul pacchiano.

Istituirò un fondo per far fronte agli imprevisti, miele in caso d’amore, corde vocali nuove in caso di  perdita di voce post-concerto, scarpe nuove nel caso consumassi le suole durante viaggi in posti ancora sconosciuti.

Farò dell’ottimismo una religione senza dimenticare di prendere un paracadute, farò meno teatrini quando mi arrabbio ed andrò più sovente a teatro.

Creerò un’ora alla settimana dedicata alla ricerca di cose sconosciute puntando a diventare massima esperta della teoria delle stringhe.

Studierò il tedesco per non sfigurare all’Oktoberfest e per rendere finalmente felice mia Nonna trovando un biondone con dei bei denti. Perché avere dei bei denti è tutto per mia Nonna.

Che poi spero vivamente che mia Nonna non stia leggendo perché il prossimo buon proposito, l’unico che tutti abbiamo, non è quello di essere felici da impazzire, non è quello di fare un bagno nei gettoni d’oro, non è quello di diventare capi del mondo. No.

Il prossimo ed ultimo augurio è terra a terra, è ritorno alle origini, è saper riconoscere che non si può sempre solo guardare in alto, bisogna anche avere il coraggio di abbassare lo sguardo ed osservare il proprio ombelico. Il mio ultimo buon proposito è dunque imparare a lasciarmi andare di più, smettere di fare il ghiacciolo anche ad agosto.

Il mio ultimo buon proposito, in sostanza, è fare più sesso.

Si ringrazia il ministero del Lavoro per il sostegno al progetto “Più sesso per un anno di successo”

Popolè atto primo.

E così è la vigilia di Natale, la prima edizione di Popolè si è ormai conclusa e tutti già pensiamo ai regali, all’anno nuovo e a quello che il futuro ha in serbo per noi.

Che poi perché si dica in serbo non lo so ma di sicuro per la traduzione chiamerò mia cugina che lei in serbo ci ha preso la laurea.

Sarebbe inutile fare un discorso tipo “chi l’avrebbe mai detto, da compagni di liceo a collaboratori per la Nostra festa d’arte”. E infatti ho deciso di non farlo.

Sarebbe noioso iniziare a fare un elenco di ringraziamenti che, per quanto pieni di significato, al lettore risulterebbero sterili e ridondanti.

Ed è dunque evidente che mi trovo in difficoltà, che non so bene cosa scrivere, che non so bene come iniziare anche se in realtà ho già iniziato. Diciamo che non so come continuare.

Propongo un brindisi e da quanti ne farò finiremo tutti ubriachi dopo poche righe, ma è Natale e le bollicine fanno sempre piacere.

Un brindisi a Simone che ha avuto l’idea, che faceva telefonate all’una di notte per parlare del minimo dettaglio, che dopo questo festival ha due borse sotto gli occhi che neanche Gucci, che ci siamo urlati addosso come due Scorpioni con Saturno contro finendo con un sorriso ed una pacca sulla spalla. Perché il vero motivo per cui si litiga è la magia di quando si fa pace. E perché siamo due teste calde.

Un brindisi a chi ci ha messo il cuore, fosse dalla platea o dal palco, dalle quinte al bar, dalla cassa alla cucina.

Un brindisi a chi ha fatto critiche costruttive, agli errori e alla voglia d’imparare, un brindisi alla magia che si è creata tra i muri del piccolo teatro Giraudi.

Un brindisi al pubblico che pubblico non era, alle vostre risate e alle vostre lacrime, un brindisi soprattutto alle emozioni che abbiamo mostrato senza vergogna.

Un brindisi a chi ha già difficoltà a mettere a fuoco le righe, suvvia siamo in Piemonte, il vino ci scorre dentro più del sangue. Se la gioca con l’Americano Cocchi a dirla tutta.

Lo ammetto, ho barato. Ho detto che non avrei fatto ringraziamenti ed invece li ho semplicemente mascherati con un “brindisi”.

È che mi hanno insegnato che un grazie non costa nulla e regala un sorriso, è che nonostante io stia raramente in silenzio, oltre ad un grazie non ho altro da dire.

Anzi, una cosa ce l’avrei.

Arrivederci alla seconda edizione.

Abbiamo festeggiato l’arte e non abbiamo nessuna intenzione di fermarci.

La Puta Vida

La Puta Vida è verità.

La Puta Vida è Papo che si mette in scena, che si scinde in due personaggi, lo ying e lo yang di se stesso senza che ci sia un bianco, senza che ci sia un nero. E bada bene che un nero in scena c’è ma è solo trucco, è solo una metafora.

La Puta Vida è la metafora del conflitto interiore, del nostro angelo ed il nostro Lucifero che si scontrano, ma Lucifero era l’angelo più bello se non erro.

La Puta Vida è un eroinomane senza un occhio ed un bravo ragazzo che ha perso la speranza.

La Puta Vida è ciò che non ti aspetti ed è questo a renderlo reale.

La Puta Vida è nuda, volgare, è un ago che ti sazia e la vita che ti svuota. È bestemmiare contro il Dio della propria vita, contro se stessi. È darsi un’altra occasione, quella che saprai cogliere.

La Puta Vida è violenza al servizio della Verità, della Vita con la V maiuscola.

La Puta Vida sei tu che devi scegliere da che parte stare, sei tu che non capisci chi abbia ragione e chi torto, cosa sia giusto e cosa sbagliato. È un viaggio in una vita di cui non conosci nulla ma che alla fine se togli il trucco, i costumi di scena, le luci rosse, capisci che La Puta Vida sono i tuoi errori, le tue scelte sbagliate, i tuoi obiettivi messi a nudo in un testo teatrale. Acqua fredda che ti paralizza, nero che ti copre, un proiettile ben conficcato, La Puta Vida è la scheggia nell’occhio che fa vedere il fuoco dentro.

Che poi se vogliamo dirla tutta a me ha fatto proprio incazzare sta Puta Vida. M’ha fatto incazzare che io di solito ci prendo con le trame, che io di solito ho talento nello scovare l’assassino. E qui pensavo di aver capito tutto, roba che a metà spettacolo ho sorriso dicendo “va bè dai è la favoletta di strada” e invece ti ribalta, ti sconvolge, diventa imprevedibile e alla fine ti senti quasi in colpa per aver pensato che potesse essere banale, scontato. Ma la Puta Vida non fa sconti.

Randy e Ragazzo di collina camminano tra il pubblico, ti fanno entrare in scena come ad ammonirti, in scena ci sei soprattutto tu bello mio. E su quella scena mi sono presa anch’io quel giorno in più per capire, in fondo, da che parte stare.

Il palco al pubblico

Pochi posti, tutti vicini e sedie anche sul palco che quasi senti il puzzo di sudore degli artisti, che quasi diventi tu parte dello spettacolo. Stai seduto e guardi avanti, luci soffuse, una ragazza al piano. È minuta e graziosa, un bustino di pelle le dà un’aria grintosa anche se la vera forza la scatena quando accarezza il pianoforte, quando insieme alle corde vocali fa vibrare quelle che credevi ormai sopite, le tue. Lorenzo scende tra il pubblico mentre suona un banjo ed una batteria, mani e piedi in armonia con la sua voce, con i tuoi sorrisi. Arriva un tizio che si alza e non si sa da dove sbuchi, che si siede di fronte al microfono. Prende una chitarra e nemmeno lui sa quello che sta facendo, o più probabilmente lo sa fin troppo bene. “Io voglio vivere nudo, far prendere aria ai talloni” dice. Io dico che sei un fenomeno, caro Tano. Le risate si uniscono alle note che si fondono con le parole che ti frullano il cervello che ti fan venire i crampi agli addominali e ai muscoli facciali, che finisce la canzone e pensi che non riesci a pensare perché ancora stai ridendo e dici non ci credo, non ci credo che si è spogliato uscendo. Silenzioso come un gatto entra un ragazzo ricciolino, un altro Lorenzo, si siede al piano ed inizia una sonata classica, non chiedetemi di chi che se poi sbaglio mi vergogno. E poi di chi fosse che importanza ha? Ciò che conta è che ti arriva dentro come una carezza e ti culla dolcemente mentre ti lasci andare al punto che ti accorgi che ti sei commosso quando ormai il tuo mascara è completamente colato. Le mani volano su quei tasti come fossero create per stare lì sopra, è piuma nell’aria, è poesia in 88 tasti. Ma subito di corsa mentre stai dando un fazzoletto al tuo vicino si aggiungono un bassista ed un batterista e caro Baricco io in culo anche al jazz non lo dirò mai. Di nuovo sorridi e fluttui leggero tra una corda, una cassa e dei tasti. Non pensi, ascolti solo. Chiudi gli occhi e le note quasi si muovono davvero, le puoi toccare se vuoi. È di nuovo Chiara e son di nuovo lacrime ed un altro fazzoletto al tuo vicino che poteva anche portarseli da casa ed è di nuovo Lorenzo e di nuovo ridi a crepapelle abbracciando il vicino che ti scrocca i fazzoletti ed è di nuovo Tano e questa volta sei sconcertata, prima mi parli di nudo e ora d’amore, com’è che le mie emozioni non riescono a star ferme? Com’è che andiamo in alto e di colpo mi scaraventate in basso? Tutti in piedi, signori. Entrano gli Eugenio in Via Di Gioia, entrano questi personaggi che han dei musi simpatici, che sono autentici. Via le sedie tutti a ballare e io, confesso, io proprio non riesco a fare passi troppo complessi. È che il multitasking non è la mia caratteristica predominante e non posso godermi la musica, ridere fino alle lacrime e fare grands plies allo stesso tempo. Poi sono goffa di natura, il mio vicino invece non ha i fazzoletti ma quando balla sembra Bolle e lo perdo tra la folla, mi perdo tra la folla. Prendo sotto braccio degli sconosciuti e la mamma mi guarda ma non mi dice più di non dare confidenza a chi non conosco che solo scoprendo il nuovo si diventa grandi, ballo con un’amica, con la signora anziana che a fatica si regge in piedi ma che cosa ce ne frega se dobbiamo vivere facciamolo ballando col sorriso, prendo sotto braccio quella che pensavo fosse frigida e invece le bastano un paio di canzoni per muoversi leggiadra.

Mi fermo.

Mi nascondo dietro una quinta ad osservare. Il bianco dei vostri denti è accecante, l’energia dei nostri corpi è contagiosa e penso che abbiamo davvero partorito qualcosa di nuovo, autorale, popolare. L’ho fatto io, l’hai fatto tu, lo abbiamo fatto noi tutti battendo le mani a ritmo e regalando fazzoletti a chi, come noi, sa emozionarsi. Sembra banale, ogni cosa che scrivo su cos’ho provato durante il concerto d’apertura di Popolè sembra banale. Perché sarebbe dare corpo a qualcosa che un corpo non ce l’ha, sarebbe mettere nero su bianco sensazioni che nemmeno io ho ben capito cosa fossero, che nemmeno io ormai riesco più a scindere perché se dovessi riassumere in una parola il Nostro concerto, userei senza dubbio centrifuga. È stato rapido, intenso, è stato essere alla cima e al fondo del cestello nello stesso tempo, è stato girare intorno ad un punto fermo. Tu, io, noi, il popolo. È stato vedere i sorrisi durante l’aperitivo, è stato saziare l’animo in sala e il corpo subito fuori. È stato tutto e sarà ancora di più perché, signori miei, avete visto solo l’inizio.