Buio Bianco

Mi sono chiusa in una stanza tutta bianca senza finestre e senza porte. Ho urlato fino a non sentire più la mia voce, ho pianto fino a ricoprire il pavimento di lacrime. Ho dato pugni, calci, ancora pugni. E mi sono aperta le nocche. Ho la nausea, sto male, ecco ora cado a terra. Com’è che ho bisogno di bianco se tutto era nero? Com’è che devo stare murata in questa stanza se tutto era aperto? Com’è che sono sola se ero con tutti quanti? Vai a casa, sorridi, accelera. Ecco un flash, un momento, un istante. Colpevole. Com’è che si vive anni interi e poi bastano pochi secondi per cambiare qualcosa? Com’è che nella mia stanza bianca c’è un puntino nero che non va via? E io lo guardo muta, no non può essere non è vero è nella mia testa. Non è colpa mia. Ho sete, ho freddo. Eppure ci sono quaranta gradi. Eppure ho freddo lo stesso. No non farò in fretta. Mi sono spiegata male, non farò in fretta. Mi prendo il mio tempo. Non è niente, non è niente eppure a me sembra tutto.

Vedi ora che lo scrivo va già meglio, se scrivo mi rilasso. E tu sai di cosa parlo. È come se nell’esatto momento in cui scrivo sul computer le parole se ne andassero dal mio corpo. Dici che funziona anche coi ricordi? Magari si. Quando si scrive si è sempre bugiardi, io ora potrei dire che c’erano tanti fiorellini, che il sole era alto e tutto era bello. Tanto chi se ne accorgerebbe? Non c’era nessuno, non nella mia testa. E invece voglio essere sincera, prima di tutto con me stessa. Ho ancora un conato. Ho un forte odore di cannella nelle narici, ho fatto una doccia lunga, ho messo la crema idratante. Ieri mi sono immersa in piscina, un minuto di apnea così, sospesa a mezz’acqua. Mi ha sempre dato un senso di calma l’acqua.

Non ho ancora capito come si esca da questa stanza. Devo sfondare un muro è evidente, non ci sono porte né finestre. Ci siamo solo io, il bianco e quel fottutissimo puntino nero. Io, te e un muro da sfondare. Solo che mi sento paralizzata adesso. Ci sono solo le dita che scorrono sulla tastiera e io le guardo quasi come fosse una magia, quasi come se non sapessi che lettera seguirà.

Ti dedico questa cosa qui che ho nello stomaco, non so se sia odio, rabbia o solo vuoto. Ecco sì, ti dedico il mio vuoto. Com’è che ci sono finita io in questa stanza bianca? Io che avrei voluto murarci quegli attimi, io alla fine ci sono dentro. Mettimelo nel cervello il tasto “cancella” che sul computer non me ne faccio nulla. Ti dedico il mio buio bianco.  

Rewind

Abbiamo sempre sottovalutato il perdono. No non il perdonare gli altri e i loro errori, no. Io intendo perdonare noi stessi, che è cosa ben più difficile. Quante volte ti guardi allo specchio e inizi a pensare “se, ma se, forse in fondo io potevo… forse ecco avrei potuto”. Quante volte, alla fine, ci siamo dati più colpe di quelle che avevamo? Cosa c’è in noi che non va se l’altro ad un certo punto dice basta? Se un giorno non ti ama più, se un giorno si gira e se ne va?

Certo nessuno di noi è un santo e ognuno ha i suoi difetti, ma forse bisognerebbe saper semplicemente dire “è andata così”. Se finisce la chimica non significa sempre che siamo diventati peggiori, che siamo delle merde ed è solo colpa nostra. A volte capita, semplicemente.

 A volte succede che chiudi gli occhi e nei tuoi sogni non c’è più lui. A volte succede che nei tuoi baci non ci sia più amore. Però ecco che senso ha colpevolizzarsi sempre? Cercare ad ogni costo di aggiustare le cose, di ricominciare e sperare che questa volta vada tutto bene? Di focalizzarsi solo sui litigi, sulle urla, sui pianti da sola alle tre di notte?

 Apri la mano, lascia andare il passato prima che la corda a cui hai legato i tuoi torti ti trascini a fondo. Tieniti i bei ricordi, pensa al primo bacio, alla prima cena a casa sua, a quella volta in cui hai abbassato le luci e ti sei lasciata andare. Pensa a quando ti ha rapita e ti sei dimenticata del resto del mondo per quarantotto ore, a quando ti ha detto che eri così bella da togliere il fiato. 

Perché certo forse sarebbe potuta andare meglio, ma nessuno ha ancora inventato la macchina del tempo e il tasto rewind esiste solo nelle canzoni di Vasco Rossi.

Perché in fondo può succedere che il tuo sbaglio più grande sia continuare a rimuginare sulla parola di troppo, sul silenzio che non hai saputo rompere, sullo sguardo che non hai saputo alzare.

Un giorno toccherai la ferita e sentirai che non fa poi così male, che tutto continua esattamente come prima, che il vuoto al tuo fianco non saranno i tuoi sensi di colpa a riempirlo, bensì i tuoi sorrisi.

Una mattina mentre ti starai lavando il viso, mentre avrai tutta la schiuma sugli occhi, scoppierai a ridere e dirai “certo sarebbe potuta andare meglio, ma è stata comunque una figata”.

Una sera prima di addormentarti, penserai che semplicemente può capitare.

Che tu t’innamori,

che lui ti ami,

che tu te ne vada,

che tu ti perdoni.

Mauro

Si chiama Mauro il mio papà. Ha grandi mani sottili, il naso greco, capelli un tempo castani. Mi han detto che da giovane andava in giro in kawasaki, faceva il calciatore in serie C con la C di calcio. Un giorno un difensore ha sbagliato a saltare e al mio papà, come ai bimbi piccoli, sono caduti i dentini. Per tanto tempo si è vergognato di sorridere. Io mica gliel’ho mai detto che m’illumina le giornate quando sorride.  Ha conosciuto la mia mamma e non è stato subito amore come nei cartoni disney. Anche perché l’amazzone era mia mamma, credo che mio padre al massimo abbia cavalcato un ciuco. Poi è nato mio fratello e dopo tre anni sono arrivata io, che mica ero prevista.  La mia mamma voleva che nascessi a primavera, una Venere di Botticelli dei poveri. Purtroppo ho subito fatto di testa mia e puf sono arrivata nel mese più triste dell’anno, Novembre.

Ora che ci penso, credo di aver abbracciato mio padre meno di cinque volte in tutta la mia vita. Il suo più grande gesto d’affetto è passarmi una mano tra i capelli e in quella carezza vedo chiaramente tutto l’amore di cui un uomo è capace. Le sue dita gentili sfiorano per non far male, una delicatezza dolcissima. E io mi sciolgo come una tavoletta di cioccolato al sole d’Agosto.

Ci siamo scontrati così tanto che a volte mi mancava il fiato perché sai quando urla non c’è da preoccuparsi, basta lasciar passare dieci minuti e tutto si risolve. Il problema è quando parla a voce bassa allora a quel punto ecco, a quel punto puoi sentire le gambe diventare gelatina.

Papà che poi è sempre lì ad ascoltarmi, papà che gli racconto i miei problemi e lui coi suoi occhi scuri mi guarda dentro e non ha paura di dirmi che sbaglio, papà che poi mi sorride e dice “quelli di cuore sono i più bei problemi che potrai mai avere” e so che ha ragione.

Papà che mi prende costantemente in giro  per i difetti fisici, per come parlo, per come mi muovo. Poi però quando metto un bel vestito e un velo di rossetto mi dice che sono bellissima e io, come tutte le bambine, ci credo davvero.

S’incazza quando litigo con mio fratello, si scioglie quando facciamo pace.

Dicono che, in fondo, io e mio padre ci scontriamo spesso perché siamo uguali. Una sorta di odi et amo.

Oggi mi sono seduta davanti al computer e ho detto “adesso vi racconto mio padre”. Il problema è che non ne sono in grado e lo riconosco. Non so mettere in parole le emozioni, non so spiegare davvero la sua essenza. Una marlboro, un bicchiere di vino, una battuta in dialetto. Uno sguardo severo, un sorriso comprensivo, ancora una marlboro. Ecco non ho detto nulla, eppure a me sembra di aver spiegato tutto. Come posso esprimere l’affetto che c’è dietro il fatto che anche tra milioni di persone io riconoscerei il suo colpo di tosse? Come posso spiegare che spesso è la prima persona che chiamo? Come scrivere, infine, che se esiste il vero amore io lo vedo negli occhi dei miei genitori che ancora, dopo trent’anni e spingi, sembrano davvero due metà della stessa mela?

Semplicemente non lo faccio. Me lo tengo per me, custodisco gelosamente in fondo al cuore tutte quelle sfumature.

E dunque buon compleanno papà, avrei voluto raccontarti meglio.

Dieci mesi di champagne

Che cosa rimarrà della bella Parigi? Un anno è passato così in fretta, un battito di ciglia, il tempo di una coppa di champagne sul lungo Senna. Arrivi con la voglia di conquistare il mondo, poi ti rendi conto che è questa città piano piano a conquistare il tuo cuore passo dopo passo, bonjour dopo bonjour. Parigi e la sua pioggia, i suoi cieli incantevoli e quel suo fascino sopra le righe, quella bellezza che ti chiede d’inchinarti al suo cospetto. Parigi che quando il Sole splende puzza di piscio, un po’ come se la luce facesse i risaltare una città piena di contrasti dove le borse di Chanel non compensano i barboni ad ogni angolo. E bada che quell’odore dolciastro di alcool e sporcizia ti si attacca dentro, ti obbliga a riflettere almeno un istante su quanto forte la fortuna ti abbia baciata. Parigi con i suoi café, i suoi bistrot così minuscoli che puoi sentire il profumo della signora al tavolo accanto. Ecco vedi quell’uomo davanti a noi? Ora inizierà a suonare il pianoforte in piazza come ogni domenica, e come ogni domenica non potrò che stare a guardarlo. Presto si riempirà di turisti, e vedrai anche tu che inizierai un po’ a odiarli, il modo lento in cui camminano, il loro stare a sinistra sulle scale mobili, il loro fare foto in continuo mentre tu devi andare. Andare sì ma dove? non lo so, che importanza ha? Questa città ha la fretta nel DNA, ha il ritardo pre-impostato sull’orologio. Ora vieni, andiamo a perderci nelle stradine, non esiste modo migliore per vivere qui. Guarda quel passaggio che bello, guarda quel balcone coi suoi fiori bianchi e una signora affacciata con una collana di perle. Lo senti il profumo di cucina? Lo senti il burro salato della Normandia e della Bretagna che piano piano ti s’insinua nelle narici finché ne diventi dipendente? Lo sapevi che le ostriche si mangiano solo nei mesi con la erre? Lo sapevi che questo posto è una vecchia stazione del metrò? Lo sapevi che in un café senza terrazza non vale nemmeno la pena andare? Ho letto di una mostra, sembra bella e non lontano da qui. Qui che niente è vicino eppure tutto lo è, qui che non è poi così grande. Qui che non sai nemmeno quante mosche rischi di ingoiare se non la smetti di girare a bocca aperta per lo stupore.
I parigini sono proprio degli stronzi, dopotutto i cliché hanno sempre una base di verità. Trovami un cameriere gentile, diventerai il mio eroe. Trovami qualcuno che non rida sotto i baffi quando dici che sei italiano, ti offrirò una cena. Non è vero che ci odiano, assolutamente no. È solo che per loro siamo dei sempliciotti, dei mangia pizza con l’orecchino al sopracciglio e delle belle terre, nulla più. Certo siamo calorosi, addirittura focosi, ma lontani anni luce dal loro livello. Un italiano elegante? Ma voi non siete quelli coi completi gessati? È buona la cucina italiana? Bè pizza pasta e tiramisù non sono male ma che avete d’altro? All’inizio ti scaldi, rispondi a tono e ovviamente tiri in ballo il bidet, nostro vero orgoglio nazionale. Poi ti passa e sorridi, il loro patriottismo è così forte che per loro la Francia e Parigi soprattutto è meglio del paradiso. Questo se parlano con uno straniero perché, proprio come noi, sono i primi a criticare il loro paese, ma solo tra concittadini s’intende.
Si è fatto tardi, tra poco sarà buio. Quale anima vuoi scoprire? Vuoi vedere i ragazzi con una chitarra e del vino portato da casa? Seguimi forza, ti porto sul canale coi suoi ponti in ferro battuto e l’odore di marijuana. O forse preferisci rue de Lappe dove una tequila costa tre euro e ti ritrovi tra turisti e la Parigi forse non abbiente ma sicuramente piena di vita. Vuoi essere un bobò? Andiamo a scoprire i bar di Saint Germain, il suo essere terribilmente affascinante e in fondo un po’ snob.
Torniamo a casa, facciamolo in bici. Con la luce soffusa dei lampioni Parigi si scopre lentamente, come una bella donna che sa di essere guardata. C’è silenzio, tutto tace. Solo una leggera brezza, una risata lontana. Sono partita pensando che al mio ritorno avrei saputo molte più cose, sarei diventata incredibilmente “saggia”, come se le saggezza si acquistasse in un anno con comode rate mensili. Sono partita pensando che.. sono partita e non ricordo nemmeno bene come. Sai ci sono momenti che canonicamente dovrebbero essere importanti, e invece io sono una sega totale. Tipo gli addii, quando devo salutare qualcuno ho lo stesso trasporto di un sasso sul ciglio della statale per Bardonecchia. Quando devo partire ho solo l’ansia di prendere il treno, confesso che non mi perdo molto in riflessioni. Non sono capace di fare quelle scene strappalacrime da film, sai roba con fazzoletti bianchi, occhi lucidi e un sacco d’amore nell’aria. No. Io salgo, cerco il mio posto e tanti saluti. Anche se sarebbe bello ogni tanto poter fare una corsa disperata sul binario urlando “non partire, non partireee” cercando di non inciampare nel barboncino di quella che ti cammina davanti.
Ora che sono tornata ho passato giorni e giorni a cercare una frase ad effetto, sai una di quelle che poi quando l’hai scritta ti dai una bella pacca sulla spalla, una frase che ti faccia sembrare super intelligente e super profondo anche se, probabilmente, ti è venuta dopo il quarto negroni. E invece ho deciso di non scrivere nulla, di fare quella super pensierosa, super misteriosa, super fica, quando invece il mio unico pensiero è recuperare qualche ora di sonno. Ma questo è un segreto.
Andate a Parigi, perché è veramente uno spettacolo. Non prendete mai la linea tredici a Saint Lazare se ci tenete alla vostra vita. Prima di cambiare a Chatelet, consiglio mezz’ora di meditazione o spararsi in un piede. Odiate i turisti anche se voi stessi lo siete, se camminate con passo deciso e senza zaino, vi confonderete con la massa. Se un cameriere fa lo stronzo, fate ancora più gli stronzi e lo conquisterete.
Se, infine, un parigino snob vi chiedesse cosa ne pensate della città, voi guardatelo con aria di sufficienza rispondendo “non è male ci mancherebbe, però Roma..”

Quando muore una stella

Forse a volte ci dimentichiamo che quando muore una persona famosa, muore innanzitutto una persona. Che dietro una macchina da presa, dietro le pagine di un libro, dietro un volto noto si nasconde un cuore con le sue gioie e i suoi dolori, coi suoi pregi e i suoi difetti. L’arte, ci insegna la storia, non ha cimiteri se non per i suoi interpreti, se non per chi la crea. La morte, a volte, sembra una gara a chi soffre di più,  a chi manda i fiori più belli, a chi sceglie le parole più appropriate. Ma, parafrasando uno scrittore famoso, io (non) sono Dio, io non posso giudicare il tuo modo di vivere il dolore né tanto meno pensare se esso sia veritiero. Perché è una questione privata, personale e se hai voglia di condividerla bè, l’accetto così com’è.  E se nemmeno sapevi chi fosse questa stella prima della sua morte, non sarai oggetto del mio astio se t’informerai sulla sua vita ben anche lo facessi solo per non stare zitto al bar con gli amici, ben anche lo facessi per avere più consensi. Perché in fondo può capitare che leggendo le sue frasi tu ti renda conto che quella persona era interessante, che vale la pena scoprire la sua arte. Ed è così che lo renderai immortale, è così che le opere sopravvivono. Perché ci sono persone che s’ interessano. Il tuo negozio di fiducia non ti chiederà perché stai comprando quel libro, quel cd o quel film. Sorriderà sperando che, forse, anche la morte serve all’arte. Perché se per i familiari, gli amici e i conoscenti chi muore è soprattutto un uomo, niente è forse per loro più gratificante di sapere che, anche nel dolore, c’è chi sorridendo dirà ancora “minchia signor tenente”.