La peperonata del compromesso

Forse si diventa grandi quando s’impara a chiudere dolcemente le porte, quando si scende ai primi compromessi, quando impari che “tutto e subito” è solo per i capricciosi. Nasci con l’idea che a compromessi tu non ci scenderai mai, che i tuoi ideali e i tuoi sogni non hanno sfumature, solo bianco o nero.  Poi scopri il grigio e ne diventi dipendente.

Scopri che uscire sbattendo la porta fa molto rumore ma chiude le menti dietro infantili ottusità, non lascia spazio al grigio. E invece accompagnando gentilmente la porta puoi vedere come la luce si mischi alle tenebre, come il freddo e il caldo intiepidiscano, come impari a stare in equilibrio sulla fune.

Crescere significa anche saper incassare aspettando il momento giusto, spegnere il fuoco della rabbia cieca semplicemente aprendo gli occhi.

Crescere significa sapersi assumere le responsabilità dei propri errori e capire che a volte le proprie ragioni vanno fatte valere con i fatti perché valgono più di tante belle, o brutte, parole.

Crescere significa stringere i denti davanti alle difficoltà pur di non cedere perché non puoi cedere. Perché ce la puoi fare e lo sai, caccia in gola la paura e tira fuori gli attributi.

Ho sempre pensato che io a compromessi non ci sarei mai scesa,  che la vendetta è indispensabile per mettersi il cuore in pace perché a me sbattere le porte è sempre piaciuto un sacco.

Ma solo gli stolti non cambiano idea, dicono così.

Solo gli stolti non sanno trovare un punto d’incontro, un punto d’equilibrio.

E ho capito che in realtà la vendetta è dei deboli, è di chi non sa dimostrare a sé stesso di essere forte e si appoggia a parole velenose, a gesti rancorosi pur di togliere il male da dentro di sé per gettarlo sull’altro. E dopo che ti vendichi stai lì, assetato di un gesto di risposta perché la vendetta non basta a se stessa, la vendetta vuole vendetta e nessuno, nessuno ne esce vincitore.

Ma io credo si vinca con se stessi e mai contro gli altri, perché la soddisfazione te la dai da solo quando puoi permetterti di guardarti allo specchio col cuore in pace e il sorriso sul volto perché ce l’hai fatta e l’hai dimostrato all’unica persona che conta: Tu.  Perché in fondo quando sbatti quella porta il rumore t’infastidisce, ed è solo accompagnandola che ti senti leggero.   Ed il mio è uno sfogo bello e buono, lo so. Ma sto imparando ad aprire gli occhi per mettere a tacere la rabbia, a rimpiazzare la paura con la tenacia. Vorrei dire tante belle cose, tipo che devi porgere l’altra guancia ed onorare la madre e il padre ma non sono una moralizzatrice né tanto meno un prete di campagna. Sono solo una ragazzina che sta imparando a digerire i compromessi meglio della peperonata domenicale.

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Ed è già passato un anno.

No, non mi sembra ieri che ho pubblicato il primo articolo, mi sembra sia passato molto più tempo. Non saprei dire quanto, solo molto di più.

Postai “il coraggio di fallire” alle tre di notte per non rimanere delusa scoprendo che nessuno l’aveva letto. Mi svegliai l’indomani con tanti messaggi di complimenti, con molti auguri per l’inizio di qualcosa di nuovo. Rimasi senza parole, avevo dato voce ai miei pensieri ed erano piaciuti.

Scoppiai a ridere, fortissimo. Una risata liberatoria, di quelle che lasciano andare le paure, i timori.

Una sensazione stranissima e bellissima.

Ho imparato a raccontarmi perché in fondo, io credo, tutti abbiamo le stesse paure.

Ho scritto della mia malattia perché volevo abbattere un mio tabù, perché nel bene e nel male è sempre con me.

Ho scritto di storie che non ho vissuto per provare a capire le persone, perché amo interpretare le persone.

Ho inventato di sana pianta per mettere alla prova la mia fantasia.

Non ricomincerei.

Non ricomincerei perché per ricominciare si deve tornare indietro ed invece io voglio andare avanti, lettera dopo lettera, articolo dopo articolo e vedere dove disegnerò la mia strada.

Si perché io mica ci credo a quelle favolette della storia già scritta, del percorso già tracciato. Io vado in giro con un aratro e solco il mio sentiero, bivi compresi.

Mi costruisco anche le trappole in cui, puntualmente, cado.  E quando succede faccio due cose: la prima è ripetermi fino alla nausea una della battute finali de Il cavaliere oscuro, “perché lui può sopportarlo”; la seconda è scrivere.  E mentre scrivo rifletto, analizzo, cambio idea.

Mediamente ogni articolo ha almeno tre inizi differenti. Il primo fa schifo, è freddo. Il secondo non è male ma gli manca qualcosa, non pulsa. Il terzo arriva fino all’ultimo punto ed infatti è pieno di errori, di virgole omesse e parole ripetute.  Ed è questo a piacermi, l’imperfezione.  Niente dà più ispirazione dell’imperfezione.

Chi si fermerebbe mai a pensare davanti ad un muro completamente bianco, pulito, assolutamente perfetto? Nessuno. Ma tu metti un puntino nero, anche piccolissimo, in quel muro e tutti si chiederanno il perché, tutti inizieranno a pensare come sarebbe se non ci fosse, o se ce ne fossero altri. Perché la perfezione è un cerchio chiuso in cui non ci sono spiragli, una figura che basta a se stessa.  L’imperfezione invece ti costringe a trovare un modo per chiudere il cerchio.

Ed io il mio cerchio pensavo di averlo chiuso già da tempo, pensavo che avrei passato la vita in tribunale lottando per la giustizia. Invece mi sono ritrovata con un biglietto di sola andata per Parigi, un computer con i tasti consumati, un minestrone in testa che potrei vendere la ricetta alla Findus.

Così adesso, dopo appena un anno, vago col mio aratro cercando il vento, fiutando paesi che non pensavo esistessero sulla mappa del mio percorso.

Così adesso, dopo appena un anno, sto imparando cosa davvero significhi il coraggio di fallire, cosa significhi prendere un treno senza conoscere la destinazione ma, soprattutto, sto imparando che tra vent’anni  a quella telefonata proprio non so come risponderò.