Hola, mi amor.

Ciao zia,

sono Paolo, ricordi? È da un po’ che non ti scrivo, dal primo anniversario della tua morte.

Ho scritto morte e non quelle espressioni orrende tipo “dipartita, scomparsa” che la gente usa per non dire la temutissima parolina con la emme. Morte.

Tu hai sempre amato la cruda verità, hai sempre odiato le persone che non hanno il coraggio di dirla. In generale hai sempre detestato le persone che non hanno coraggio e mi hai amato alla follia perché dicevi che invece io, di coraggio, ne avevo da vendere. Non so se avevi ragione.

Ricordo perfettamente la tua erre moscia, quel tuo sguardo così profondo che non se ne vedeva la fine. Ti ricordo così bene che potrei disegnare le tue unghie dei piedi ed è strano, sai, è strano perché non ci siamo visti che un paio di settimane. Vivevi dall’altra parte del mondo ma, da quando te ne sei andata, è un po’ come se avessi lasciato un monolocale nel mio cuore. Una casetta piccola senza muri divisori, uno spazio aperto e luminoso in cui, qualche volta, mi rifugio.

Ti scrivo perché sono triste e mi hai sempre detto che mettere nero su bianco il proprio dolore aiuta ad esorcizzarlo, che è come farlo uscire da noi stessi e guardarlo con occhi nuovi, un po’ come pensare ad una persona ed avercela davanti agli occhi. Una gran bella differenza. Così ti scrivo perché spero tu abbia ragione, l’hai sempre avuta.

Mi chiedo zia se quella ferita che ho al fondo della schiena si rimarginerà mai o se invece dovrei usarla come inesauribile fonte di riflessione. L’altro giorno, mentre pensavo che si fosse ormai cicatrizzata, ho stretto la mano ad uno sconosciuto ed è stato come se quest’uomo avesse preso un pugnale per lacerarmi quel punto esatto della schiena, per aprire una finestra del tempo e riportarmi a quei giorni bui. E mentre io viaggiavo il mio cervello era paralizzato, ho pianto dietro le ante di un armadio, ho pianto così tanto che quasi non riuscivo a respirare. Erano anni che non mi succedeva.

Mi dicevi sempre, zia bella, che il nostro corpo ci parla e che sta a noi imparare ad ascoltarlo. Ecco, ho imparato che quando mi succede qualcosa che mi ferisce nel profondo ho una scossa fortissima al braccio, una specie di fitta che parte dalla spalla ed arriva fino al pollice. Quando ho stretto la mano a quello sconosciuto la fitta è stata a tutte e due le braccia. Non ricordo il suo viso né tantomeno il suo nome. Di lui ricordo questa fitta fortissima e le mie lacrime come una diga senza argini. Sarà stato il caso, sarà che erano anni che avevo bisogno di piangere come un bambino quando gli muore il cane. Come se stringendomi la mano avesse tirato via il tappeto facendomi sparire dietro una nuvola di polvere.

Se stessimo parlando davanti ad un caffè come vecchi amici so che non mi chiederesti se ho una ragazza, so che mi guarderesti dritto nelle pupille e cercheresti di capire se sono innamorato. So che lì ti stupiresti d’intuire, perché tu intuisci molte cose, che non lo sono e allora poseresti la tazzina di caffè e mi chiederesti perché non sono innamorato, perché mi nascondo dietro castelli di carte. Ti direi che semplicemente non ho ancora incontrato la persona giusta, nessuna che mi smuova le viscere. Nessuna per cui abbia pianto davvero  anche se per pseudo amore ho pianto. Un uomo si sente vivo quando ama e se non lo fa si convince di essere innamorato per convincersi di essere vivo fino in fondo.  Così ho pianto per illudermi di sentire il mio cuore pulsare più forte. Tu rideresti così  forte da far ridere tutto il bar, è impossibile non essere felici quando tu sorridi. Poi torneresti seria con quel tuo sguardo severo e mi diresti che sono tutte scuse, che la persona giusta non cade come pioggia a primavera, che la persona giusta, cazzo, devi saperla accogliere.  Hai sempre amato dire le parolacce, ti facevano sentire più giovane.

A questo punto azzarderesti una delle tue metafore da donna con le palle, tireresti fuori il calcio. E zia, ammettilo, tu di calcio non ci hai mai capito niente. Mi diresti, ne sono certo, che sono come un ragazzo che sogna di giocare la Champions League ma che salta gli allenamenti, un uomo che sogna una cena al lume di candela ma si dimentica di apparecchiare la tavola. Perché la verità, mi diresti, è che tu non ti concedi d’innamorarti. Ti chiudi nel tuo guscio rifuggendo le persone, continueresti, non ti spogli delle tue paure perché senti freddo ma non ti accorgi che il freddo ce l’hai dentro. Non ti accorgi che nessuno bussa alla tua porta perché, semplicemente, le hai murate tutte. Mi sgrideresti perché, ovviamente, starei piangendo, perché saprei che hai ragione.

“Vuoi bere Barolo ma entri in birreria sapendo che non servono vino e ti lamenti che, cazzo, non hai bevuto ciò che volevi. E ci ritorni ogni sera, e ogni sera ti lamenti. E ogni sera sai che, in fondo, è colpa tua, che basterebbe cercare una vineria. Ma non sai che nome dare a quella forza invisibile che ti impedisce di avventurarti tra le vie del centro e che ti fa entrare, ogni sera, in quella birreria di periferia.”

Ecco zia, adesso la mia fantasia si ferma, non so come continueresti ed è per questo che ti scrivo, per chiederti di dare un nome, per chiederti un consiglio. Mi hai sempre detto di non avere fretta e ti giuro che ho imparato a non averne se non sulle cose importanti. Sai zia, mi sento galleggiare in un mare che non so nemmeno dove sia e vorrei che tu, nel più bello dei miei sogni, venissi a prenderlo questo caffè con me, fosse anche dall’altra parte del mondo. Mi mancano la tua voce, quella tua erre moscia e tutte quelle rughette che avevi intorno alle labbra. Mi mancano la tua aria così austera e quei tuoi abbracci caldi, il tuo orgoglio e la tua dolcezza. Mi manca comporre il tuo numero sul telefono e sentire il tuo “Hola mi amor” dall’altra parte del capo. Vienimi a trovare zia, offro io.

Paolo

Ps. Non sapendo l’indirizzo brucio questa lettera nel camino. Il calore sale così spero che le mie parole arrivino fin da te. Hola, mi amor.

Adesso non esiste.

Mi fa strano scriverti. In realtà questo momento non esiste. Voglio dire ora qui adesso io ti dico che il mio caffè é caldo, ma quando tu lo leggerai sarà già finito. I miei capelli misurano circa 15,35 cm, forse quando tu leggerai saranno cresciuti di 0,00005 mm e tutto sarà diverso, ogni cosa sarà cambiata.  Io avrò più sonno, il sole sarà meno alto nel cielo o forse sarà già notte. Capisci é come se quando ti scrivo mettessi le parole in una bolla di sapone che non risente del tempo, dello spazio, dei capelli che crescono, del caffè che si raffredda. Adesso ne sono certa ci sono 2000 coppie che stanno facendo l’amore, un signore suona il violino nella stazione del metrò ma forse é già tutto finito, forse non é già più vero.  Come può esserlo se mentre ti scrivo il momento é già passato?  Si certo tutto scorre non l’ho mica inventato io, é solo che non ci avevo mai davvero pensato, non applicato ad una lettera. Si lo so che è un’email ma concedimi quel po’ di romanticismo che ancora conservo. Dici che esiste un mondo a parte per le parole scritte ? Che ne so un enorme archivio che funziona tipo una macchina del tempo. Tu dal futuro, che magari poi son dieci minuti, torni indietro al momento il cui mio indice si è posato sulla prima « emme ». Bello vero ? Un orologio che va avanti e indietro secondo i tuoi desideri. Avrai nella testa i miei capelli della giusta lunghezza, il profumo inebriante del caffè appena passato che, in realtà, ho bevuto già da un po’. Chissà cosa stai facendo adesso. Che poi se ci pensi adesso è relativo, pare evidente. Poi è un circolo vizioso perchè quando tu mi risponderai, se mai lo farai, sarà la stessa cosa. Mi dirai che sei felice perchè hai risolto quel problema, che stai uscendo a bere una birra e che, in fondo, forse un po’ ti manco. E io ora mi chiedo se sia vero, voglio dire quando io leggerò sarà ancora vero che mi vorresti accanto o invece ti sarai dimenticato delle mie lentiggini sul naso? E la birra l’avrai già finita? Tu mi dici sempre di vivere qui ed ora, adesso, nel presente. Il fatto è che così il presente è relativo, non vivo che nel passato o nel futuro, in ogni caso in un tempo che qui ora adesso non esiste. Tu mi dirai che sono stupida, che mi faccio troppi problemi inutili, ma in fondo so che mi darai ragione. Se vuoi saperlo il caffè l’ho finito davvero, i miei capelli sono senza dubbio cresciuti, il violinista della metro sta contando le monete nel cappello, il cielo è blu e io decido che è il momento di mandare le mie parole nella bolla di sapone, nella tua casella di posta che poi è un po’ la stessa cosa.

 

Ps mi manchi, ma non ti preoccupare non hai lentiggini di cui mi possa scordare.