Dolce come la mielite

Ho aperto il cassetto dei ricordi. C’era una busta bianca, intatta. Sapevo benissimo cosa fosse ma ho comunque letto il nome del destinatario: “a chiunque tu sarai, da chi sei stata”.
Mi tremava la mano, ma ho trovato la forza di aprirla.

“è già il 30 aprile 2014? Come passa in fretta il tempo, dieci anni in meno di un secondo. Parlami di te, che aspetto hai? Sei innamorata? Ti son cresciute le tette o continuiamo ad assomigliare più ad un asse da stiro che ad una donna? Cosa studi? Ti sei fatta nuovi amici? Hai un fidanzato? Io no, cioè si. Sai sono piccola ma non stupida, credo. Non so quanto riuscirò a scriverti, c’è quest’odore di disinfettante che mi dà alla testa. Pensa che ridere se ora ti venisse in mente il momento esatto in cui tu eri me, in cui avevi questa penna tra le dita. Ti do una mano, ti descrivo la stanza.
C’è Marta nel letto di fronte, sai quella con la mamma che patisce il freddo e dorme in un sacco a pelo che manco fossimo in Patagonia nonostante sia Maggio. È simpatica ma domani se ne andrà. A me non piace farmi domande però è vero che è la terza compagna di stanza che se ne torna a casa mentre io, tu, cioè noi siamo sempre qui. Qui dove? Al Regina Margherita, ospedale pediatrico, Torino. È iniziato tutto a scuola, un gran mal di schiena. Non avevo, avevamo.. senti facciamo che ti scrivo come se ti dovessi raccontare in prima persona cosa tu hai vissuto dieci anni fa, ok? Come se avessi perso la memoria. Magari ti cali più nel personaggio se uso l’ “io” anziché il “tu”. Perfetto. Non avevo mai pianto per il dolore in vita mia. In realtà non era proprio un pianto, le lacrime uscivano naturalmente e non riuscivo ad opporre resistenza. Papà aveva suonato il campanello, dovevo aprire. Mi sono alzata e sono caduta. Che succede? Magari solo una gamba addormentata, dai riprova. Niente. Solo un piccolo sforzo, su. Questa volta mi faccio male. Dalla schiena dritto al cervello arriva il panico e adesso sì che piango come una bambina, come quando non sai che sta succedendo e tutto ciò che senti è una paura che ti paralizza. È arrivato un angelo col camice da medico, sono andata al pronto soccorso della mia città. Ho perso i sensi, non riuscivo a reggere tutto quel peso sulle gambe, figuriamoci nella mia testa. “Subito a Torino, CTO o Molinette, sentite chi ha posto” dicono i dottori e non so nemmeno dove sia esattamente Torino. In ambulanza sento le sirene, vedo un respiratore attaccato. Chiedo al medico seduto accanto a me perchè stiamo andando così veloci. “Sono le undici di sera stellina, vogliamo tutti andare a casa. Abbiamo pure messo i lampeggianti e le sirene così arriviamo prima. Questa mascherina con l’ossigeno si attacca sempre, è la prassi”. E io ci casco. Ha ragione la mamma, se fossi un pesce avrei vita breve, abbocco sempre a tutto. Arriviamo al cto e mi dicono che devono iniettarmi il liquido di contrasto. Ho scoperto che serve a farti illuminare come un albero di Natale. Guarda spero che col tempo tu sia migliorata perchè in quella risonanza magnetica non sono durata più di dieci minuti. Ero calma, ferma e con la mano mi coprivo gli occhi. L’ago della flebo però ha iniziato ad andarsene per i fatti suoi, nella mia testa mi stava bucando tutto il corpo. Eccolo posso quasi vederlo il panico che ritorna, verde e feroce, dentro il mio cervello. Tremo, urlo, do i pugni e mi sembra di non potermi muovere. Perchè in effetti non posso. Tutti a nanna, se ne riparla domani. Respiro affannata e leggo la delusione negli occhi di quel medico e di mio padre. Mi dispiace, mi dispiace davvero ma io non ci riesco. Voglio dormire, voglio la mamma, voglio riabbracciare il mio cane. Devo fare la pipì ma non esce, l’infermiera mi dice di non essere timida, di fare finta che lei non ci sia. Cosa me ne frega a me del suo sguardo? Ti dico che non esce cazzo non sono mica scema! Ho la vescica che è come una bomba, sento quasi il timer.. tre, due, uno e mi dicono di stendermi. È il momento del catetere. Ho imparato più parole oggi che negli ultimi due mesi.
La notte passa in fretta, per mamma e papà un po’ meno. Ho cambiato ospedale, sono al Regina Margherita. Riproviamo con la risonanza magnetica e il mostro verde lo chiudo fuori dalla porta. Tutti mi dicono che sono stata brava ma in realtà io sono solo stata ferma.
“È il momento di giocare, devi indovinare se ti sto toccando con del cotone o con un ago”.
Per me è tutto uguale. Io sento solo delle formiche ma non credo fossero tra gli oggetti elencati. Ecco ora la vedo, quella timida lacrima sul volto di mia madre. No eh, non si fa piangere la mamma. Concentrati su dai che ora indovini. Mi giro sorridente verso il medico e dico “cotone” ma vedo chiaramente l’ago nel mio piede. Va be dai è difficile, non sono poi così diversi è normale sbagliarsi, no?
“Ora ti facciamo una punturina ma, prima, ti faccio una piccola anestesia qui sulla schiena così poi fa meno male”.
Tirano fuori il bazooka delle punture, un ago che sembra uscito dal set di un film horror. Fa un male cane. Fa davvero davvero male. Liquor è la roba che devono prendere ma non si beve e non è alcolica. Che nomi bizzarri.
“Senta dottoressa le confesso che la sedia a rotelle è abbastanza comoda ma tra quante ore torno a camminare? Non posso prendere un antibiotico, qualche pastiglia? Bevo anche dell’olio di merluzzo se necessario. Ah poi senta mercoledì devo essere fuori che ho il compito di matematica e la mia amica prende un brutto voto se non glielo passo”.
Forse a Torino parlano in francese perchè nessuno mi risponde.
Mielite. Si mangia? Di sicuro non è dolce. Devo dormire con uno strano coso al fondo del letto, dicono che il mio “piedino da fata” è troppo delicato per sopportare il peso del lenzuolo. Gli aghi sono sempre cotone e il cotone sempre ago. Manco tirando a caso ci azzecco.
Oggi sono felice, sono proprio felice. Ho una sorpresa per il mio papà. La mamma già la conosce, lei dorme qui da una settimana ormai, ventiquattr’ore su ventiquattro.
Faccio pipì da sola, non è incredibile? Non è bellissimo? Senti ora esco in mezzo alla strada corro e… si va be ok spingo le rotelle e mi metto a urlare “FACCIO PIPI’ DA SOLA”.
La fisioterapista ha detto che posso fare cinque passi al giorno, stupendo. Sono tantissima strada, posso andare fino al letto di Marta. Uno, due, tre, quattro, cinque. Magnifico.
Ho perso il conto dei giorni ma ho imparato a muovere l’alluce sinistro. Cosa me ne frega di sapere se è mercoledì o domenica quando posso giocare con le dita dei piedi?
La fisioterapia procede a gonfie vele, ora distinguo la carta vetro da una spugna. La mia neurologa ha lottato per non farmi cambiare di reparto, l’ho sentita litigare coi colleghi. Dice che qui io sono felice e che se salissi al piano di sopra mi deprimerei rischiando di guarire meno in fretta. “Questa bambina fa dei progressi incredibili, non rischiamo di rovinare tutto perchè voi non volete muovere il culo su e giù dalle scale”.
Ho una nuova compagna di stanza, si chiama Francesca. Sta sempre a lamentarsi e le vorrei tirare un vaso in testa. Per fortuna è fuori in 48 ore.
Sono passate forse tre settimane, anzi qualcosina in più. Molto di più. Non so esattamente che giorno sia, so che entra il primario in stanza e mi dice “ti dimettiamo, sei felice?”.
Praticamente gli butto le braccia al collo e, per la prima volta da quando sono rinchiusa in questa cella che sa di disinfettante, vedo la mamma tirare un sospiro di sollievo.
“Ora ti facciamo le immunoglobuline, tra due o tre giorni sei a casa”.
Non ci credo. Non ci credo. Non ci credo. Questo stronzo mi dice che mi dimette poi ritratta e mi tiene sottochiave ancora per settantadue ore? Ma credi di essere simpatico? Vaffanculo. Prendo i cesti coi regali, prendo i fiori sul comodino, prendo ogni singolo oggetto e lo scaravento contro il muro. Sembro hulk non mi ferma nessuno, getto la mia rabbia, getto il mio cazzo di sorriso che ho sempre tenuto come si porta una maschera di cera. Solo che si è sciolta quando mi hai detto “ancora due o tre giorni”. Non puoi illudermi, è scorretto. Questo vaso lo spacco per te, per il male che mi hai fatto. Non sono certa di chi sia il “te” ma non importa. È una rabbia cieca, totale, non vedo nulla, non sento nessuno. Devo solo spaccare e spacco come voi mi avete spaccato i coglioni. Urlo e piango, sento un fuoco dentro ma non riesco a spegnerlo anzi si autoalimenta. Piango tanto da farmi male agli occhi, urlo così forte da sentire le corde vocali che si stanno per spezzare. Fatemi uscire, fatemi uscire. Non ho più visto il mio cane, fatemi uscire. Nessuno ha il coraggio di dire nulla, tutti osservano in silenzio. È la mia ribellione, è il mio sommerso che esce fuori come un fiume in piena, come una diga che nessuno si è curato di tenere d’occhio. Non emetto più suoni, non ho quasi più forze. Il cuore sta per uscirmi dal petto ne sono sicura. Digrigno i denti che quasi me li spacco. Un cane con la bava alla bocca, ecco cosa sembro. Sto zitta, immobile. Guardo il vuoto, non sento più niente. Ricado sul letto e tendo il braccio al primario, mi abbandono al mio destino. Lui si avvicina, mi dà una carezza, mi buca la mano perchè ormai le altre vene sembrano un colabrodo. Chiudo gli occhi e stacco il cervello. Lo riaccendo dopo settandue ore, sulla macchina di papà. Abbraccio mio fratello, le nonne, gli zii, i cugini, il mio battuffolo di pelo bianco.
Ti ho mentito all’inizio. Sono nella nostra camera da letto, non in ospedale. Volevo solo attirare la tua attenzione. Il resto, come sai, è tutto vero. Tra qualche giorno dovrei gettare la sedia a rotelle. Chissà come cammini adesso. Non te lo chiedo, ho paura della risposta. Spero che tu stia bene, che sia riuscita a realizzare i.. i miei sogni. Comprati un bel cavallo se ancora ci sai andare, portami in passeggiata la domenica mattina. Riprendi a nuotare bene che con queste gambe adesso non mi si può vedere. Fai la pace con tuo fratello e diventa un po’ più dolce che io sono una bella stronza. Fai sorridere mamma e papà, non saltare fisioterapia. Sii felice. Sposati tardi e con uno davvero figo, uno che ti porti per mare come faceva il nonno. Tieni il piede dritto quando cammini.
Fammi un regalo, un ultimo regalo. Promettimi che un giorno mi porterai a correre ancora.

Ci vediamo tra dieci anni.”

Chiudo la busta, do un bacio in fronte a mio fratello, saluto la mamma, sorrido a mio padre.
Metto un pantaloncino nero, la prima maglietta che trovo nell’armadio. Calzo il tutore, le scarpe da ginnastica. Chiudo la porta della casa della mia infanzia.
Vado a correre al parco, ci porto anche il cane.  

Pronto tra vent’anni.

E se davvero mi telefonassi tra vent’anni?
Ci hai mai pensato? Cosa ci diremmo?
“Compra il pane tesoro che io sono ancora nel traffico”.
O forse mi dirai che hai avviato le pratiche, quelle del divorzio.
Sì perché non ce la facevi più, io con le mie ansie e tu con le tue ali che sapevo solo tarpare.
Che poi io nel matrimonio non so nemmeno se crederci.
Forse starò ancora correndo per inseguire ciò che non ho il coraggio di raggiungere. È proprio necessario correre per qualcosa che si ha accanto?
Invece no, tu mi chiamerai e userai il numero privato per stupirmi col suono della tua voce come fai sempre.
Mi chiederai come sto, è da tanto che non ci si sente, ti risponderò che va tutto bene, qualche intoppo a lavoro ma che vuoi è la vita, a casa una meraviglia.
Tu sarai felice, un uomo realizzato che voleva chiamare una persona che tanto gli era stata cara.
Era.
Sì perché non ne abbiamo azzeccate molte, lo sai, e alla fine il tempo, il lavoro, le nostre colpe e il nostro orgoglio ci hanno divisi.
Chissà se dopo aver schiacciato il rosso riprenderemo a camminare tranquilli o se avremo bisogno di sederci su una panchina.
Io mi accenderò una sigaretta, tu no, odi i vizi che non hai.
Guarderemo il vuoto sentendoci vuoti.
Una valanga di ricordi che ti cade addosso con una violenza tale da farti male alle spalle.
Sorrideremo da soli e poi, quando penseremo ai litigi, scuoteremo lievemente la testa pensando a quanto siamo stati stupidi e immaturi, a quando avremmo potuto dire “va bene” anziché intestardirci.
A quando avremmo potuto chiudere un occhio anziché tirarci un pugno, amarci piuttosto che urlarci addosso.
Ci morderemo le labbra come avremmo dovuto fare vent’anni prima, appoggeremo le mani sulle ginocchia e a fatica ci alzeremo tornando meccanicamente al presente.
Sarà dura forse, ma col tempo saremo diventati dei professionisti nel nascondere i sentimenti.
E se, semplicemente,  ti dicessi “certo amore, passo io in panetteria”?
Facciamo così, telefonami tra vent’anni e vediamo che mi dici.

Odio relativo

Io non odio nessuno e questa è una bugia.
Odio quelli che in metro si appoggiano contro i seggiolini mobili senza sedercisi.
Io sono stanca e tu, tamarro da tre soldi che fingi di non accorgerti del mio sguardo gelido, stai lì indeciso sul da farsi: sedersi o non sedersi, essere o non essere?
Come se non avessi il coraggio di andare fino in fondo lasciando sempre le cose a metà.
Tiro ad indovinare: tu sei quello intelligente che non si applica, quello che la rincorre ma quando la guarda negli occhi scappa, quello che a monopoli non costruiva mai alberghi perchè costavano troppo e poi metti che non ci passa nessuno, quello che al posto della birra ordina una panachè.
Uno che va in palestra ma non per farsi i muscoli, quello che fa il bagno in mare ma solo fino a dove tocca, uno che mangia gli spaghetti aglio olio e peperonicino ma mi raccomando con pochissimo piccante e magari senza aglio, uno che fa sesso sempre a luce spenta. 
Toccare ma non guardare, guardare ma non toccare, appoggiare ma non sedersi.
Ad ogni permissione corrisponde una proibizione uguale e contraria, mantieni un equilibrio innaturale e infatti io rido quando la metro si ferma bruscamente e tu cadi, cioè quasi cadi, sia ma che porti a termine qualcosa.
Finalmente scendi guardandoti fugacemente intorno sperando che qualcuno, ma non molti, ti abbia notato.
Mentre ti avvii all’uscita con passo mediamente veloce e mediamente lento, penso che peggio di te ci siano solo quelli che guidano col cappello, quelli che vanno ai 50 all’ora anche in autostrada, quelli che passeggiano in mezzo alla strada mentre tu hai cinque minuti per attraversare la città, quelli che non hanno ancora capito che se hanno paura di mettersi alla guida possono prendere i mezzi pubblici, quelli che solo perchè hanno il suv non rispettano i ciclisti.
In breve, da buona italiana, odio tutti quelli che anche solo lontamente potrebbero intralciare la mia strada quando sono di fretta senza dimenticarmi di detestare quelli che corrono mentre io faccio la turista.