In apnea

Quelle che state leggendo, saranno parole dal passato. Sono presenti solo ora, mentre batto sulla tastiera, ma diventano vecchie con il passare dei minuti, come un limone che inesorabilmente è destinato a diventare muffa. Sì perché mentre scrivo è un po’ come se fosse crollato un edificio e noi fossimo ancora intrappolati sotto le macerie. Chi mai perderebbe tempo a imprimere le sue memorie anziché lottare per la sua vita? Ma non è forse vero che le impressioni perdono colore, s’ingialliscono fino a che non si distingue più se era verde d’invidia o verde speranza? Allora tanto vale ingannare il tempo spremendo le meningi, che almeno se devo morire non sarò solo un corpo schiacciato da un calcinaccio.

La realtà è che ho sbagliato similitudine, il crollo di un edificio comporterebbe troppa azione ed eccessiva violenza per quello che voglio raccontare.

Ho scelto l’apnea: la quarantena è come l’apnea subacquea. Siamo lì, sospesi a galleggiare nelle nostre case: i rumori fastidiosi dei clacson, dei bar aperti fino a tardi, gli schiamazzi dei ragazzini che giocano a pallone sono un ricordo ingiallito mentre percepiamo solo un silenzio ovattato, irreale. Ci hanno detto di trattenere il respiro solo per pochi secondi, poi i secondi sono diventati un minuto, un minuto è diventato dieci e adesso siamo lì, con l’ossigeno nei polmoni che sta per finire mentre il direttore di gara ci dice di tenere duro, che tra un paio d’ore al massimo torneremo a mettere la testa fuori. Fuori dove, direttore? Che mondo ci aspetta oltre il pelo dell’acqua? Siamo qui, a metà di non si sa cosa, aspettando solo che risuoni una campana, che arrivi il tana libera tutti. Inganniamo il tempo fingendo di non vedere che è il tempo a ingannare noi. Cuciniamo leccornie, puliamo gli scaffali, leggiamo libri che nemmeno ricordavamo di avere, guardiamo serie tv di infima qualità, facciamo incetta di film colossal, pratichiamo più yoga che buone maniere. Viviamo eterne domeniche senza pensare troppo che il settimo giorno è passato da un pezzo, che dal riposo siamo passati all’ozio, dall’ozio alla noia, e dalla noia alla paura. E io ne ho da vendere, di paura. Ci sono lati positivi, è innegabile, adesso potrò liberamente manifestare il mio raccapriccio dinnanzi a chi osa toccarmi mentre mi parla, ma sarebbe stato sufficiente un corso di buone maniere. Il punto centrale è che ho paura del domani, di come si viaggerà, come si andrà a cena fuori, della rivoluzione che investirà il mondo del lavoro, il mio piccolo monotono mondo. Riuscirò a salire i gradini che mi ero prefissata o si saranno sgretolati, nel frattempo, per eventi che sfuggono al nostro controllo? Ci andrò ancora ai concerti dei Red Hot Chili Peppers? Che risposte darò alle mie domande tra uno, due o dieci mesi? È proprio questo il punto, che io non volevo scrivere un bel niente su questa quarantena per lo stesso motivo per cui mi rattristano terribilmente i libri di politica: perché nel momento stesso in cui vengono stampati sono già passati, sono già libri di storia. Che brutto scrivere parole che perdono di significato nell’arco di poco tempo, nel tempo esatto in cui dobbiamo trattenere il respiro. Non pensavo di avere polmoni così resistenti, non pensavo che le gare di apnea durassero tanto a lungo.

Giorno di quarantena sicuramente più di quaranta: chissà com’è andata, adesso che leggi dal domani.