Fiocco A Collo

Non c'è arte nel decifrare l'anima da un volto

Menu

Vai al contenuto
  • Home
  • About
  • facebook

#monologo

La teatrante.

Maggio 4, 2016Maggio 4, 2016carlottamarengo 2 commenti

Ciao, disturbo?

È tardi lo so ma volevo farti i complimenti. Ho avuto modo di osservarti sul palcoscenico e devo dire che sei un’attrice straordinaria, le tue interpretazioni sono così naturali che quasi ci si dimentica di essere a teatro. La passione che metti nei tuoi sorrisi, nei tuoi pianti e nelle tue risate è impareggiabile, sembra che ti esca dritta dal cuore e non da anni di esercizio. Mi hai veramente impressionato, grazie. Se posso fare un piccolo appunto, se posso proprio spaccare il capello in quattro, cercare l’ago nel pagliaio, il pelo nell’uovo, il centimetro di nube in un cielo terso, ecco, se posso, ti direi che usare il mio cuore da palcoscenico non è stato così piacevole.

Perché vedi io non so tirare il sipario, non so applaudire e poi uscire dalla porta principale, non so tornare alla realtà se nella realtà credevo già di esserci. Perché quando il tuo spettacolo finisce non mi rimane che chiedermi se almeno i tuoi orgasmi erano veri o se lo richiedeva il personaggio, se tu l’amore sai almeno che esiste fuori da un copione.
Ma come fai a scrivere semplicemente un altro nome, ma come fai a voltare pagina come con libro sfogliato in autogrill? Insegnami ti prego, insegnami perché io sono ancora qui a leccarmi le ferite ma sto finendo la saliva. Dimmi come fai a chiudere un cassetto e dimenticarti la foto che ci hai nascosto, dimmi come fai a non averla stampata davanti al tuo bel muso come faccio io. Dimmi come fai a far innamorare senza innamorarti mai, ad avere le scintille negli occhi e il buio nel cuore.
Se solo tu ti amassi un po’ di più, se solo non cercassi nell’amore degli altri l’amore per te stessa forse non scapperesti così in fretta, forse ti siederesti con calma a cercare il buono dietro le urla.
Sei salita sul mio cuore senza chiedermi il permesso, ci hai montato una piccola pedana e hai iniziato a recitare il tuo copione, mi hai sorriso per sentirti dire che sei bella, hai scoperto le gambe per farti amare un po’ più forte, mi hai confidato vecchie ferite per conquistare la mia fiducia, hai detto che mi amavi solo per sentirti dire che io senza di te il vino lo trovo meno buono, hai detto per sempre intendendo per ora e quando l’ora è arrivata hai fatto un inchino sperando ti lanciassi delle rose. Hai detto che il tempo era esaurito, che di questo spettacolo vi era un solo atto senza intervallo, senza possibilità di replica.
Ma tu che vai di palco in palco hai mai pensato che il fallimento è parte dello spettacolo ma non è abbastanza per chiudere il sipario? Ma tu che vai recitando hai mai visto il volto dietro la tua maschera? Ma tu che sai essere chi vuoi hai mai desiderato essere te stessa? Hai mai avuto il coraggio di ascoltarti, ascoltarti per davvero, senza un pubblico adorante?
Tu dici di cercare l’amore ma reciti monologhi, tu vuoi essere la protagonista ma non accetti altri attori, solo spettatori. Tu che arrivi, punti le luci, apri il sipario, vai in scena e se si alza la voce fuggi in camerino, fuggi verso un altro teatro, tu non ti rendi conto di essere sola, non capisci che per quanto forte possa essere un applauso nessuno risponderà mai alle tue domande perché tu, su quel palco, non lasci entrare nessuno, nemmeno chi nascondi dietro il tuo bel musino. Mi chiedo se almeno tra un teatro e l’altro, tra una fuga e l’altra, tu abbia il coraggio di fermarti a conversare con te stessa, di studiare la tua anima che, fidati, sarebbe il tuo miglior personaggio. Adesso che chi ti applaude non sono più io, adesso che posso solo ricordare lo spettacolo che sei, ti auguro un’esibizione senza pubblico e di ricevere l’applauso di cui hai più bisogno: il tuo.

Man overboard

marzo 23, 2015marzo 23, 2015carlottamarengo 4 commenti

Se ci pensi era destino. Io e te a passeggiare, tu giri a sinistra io proseguo lungo il corso. È stata la prima volta che abbiamo preso direzioni diverse e da lì non abbiamo più smesso. Non mi chiedo più come sarebbe stato continuare a passeggiare con te, contarsi i capelli bianchi e perdersi nelle prime rughe. Non mi chiedo più come sarebbe stato annoiarsi insieme in una domenica piovosa, stirarti le camicie il sabato pomeriggio. Perché semplicemente non è successo, perché semplicemente non ci amavamo abbastanza.

Speravo sarebbe stato più semplice riprendersi. Pensavo fossi come una brutta sbornia, dopo un giorno al massimo passa il mal di testa. Pensavo fossi come un brutto sogno che al mattino si dimentica ma nessuno mi aveva mai detto quanto lunga potesse essere la notte.

E così adesso sono qui ad annaspare nel mare tentando di respirare anche se, lo confesso, non so più nuotare. Cerco una barca che mi tragga in salvo, che mi conduca in un porto sicuro. Ma non trovo che pirati, capitani pronti a ributtarmi in mare solo perché non ho abbastanza oro da offrire, solo perché un pirata delle mie lacrime non sa che farsene.

Ed è curioso come sia proprio io ad essermi messa in pericolo, lo sai che ho sempre amato le situazioni estreme, che per sentirmi viva ho sempre cercato quel brivido lungo la schiena. Ma se io adesso volessi solo arrivare a riva, se io adesso non volessi altro che terra ferma sotto i miei piedi ormai stufi di tutta quest’acqua?

Che poi lo sai cos’è che mi fa incazzare davvero? Cos’è che non mi dà pace? Che io da quando ho visto un porto andare a fuoco io nei porti mica ci voglio più entrare. Ma ho paura a stare qui in mezzo al mare, l’acqua è così fredda che anche il mio cuore non riesce più a scaldarsi. E in fondo in quell’incendio tu hai gettato la benzina, io la sigaretta. E in questo mare tu hai portato fuori la barca, io mi sono tuffata. E adesso arranco, batto i pugni sull’acqua dimenticandomi che sono le gambe a farmi muovere, respiro affannata dimenticando che è la calma a permettere di riflettere.

Galleggio e solo adesso penso, solo adesso realizzo che nonostante tutto io galleggio. Non è cosa da poco. Sono giorni, mesi, forse addirittura anni che sto qui e ancora galleggio, ancora non sono affondata come un povero, inutile sassolino. E allora forse la riva non è così lontana, e allora forse se adesso mi concentro posso tornare a casa, una bracciata dopo l’altra, una boccata d’aria dopo l’altra. E forse con calma arriverò non in un porto ma nel mio porto, tornerò a sentirmi a casa al caldo, una tazza fumante di the nero, i biscotti nel forno. Se adesso io riuscissi a immergermi e confidare agli abissi, solo agli abissi che qualcosa mi manca e che quel qualcosa io ho finalmente il coraggio di chiamarlo per nome, bè forse sarebbe questo a darmi forza. Perché niente ci rende più forti che confessare una debolezza. Così io ora se guardassi negli occhi il buio di questo mare metterei fine al mio incubo e in superficie altro non vedrei che il sole. Così, se adesso mi concentro, già sento il profumo accogliente dei biscotti appena fatti.

Racconti Buffi

dicembre 18, 2014carlottamarengo Lascia un commento

Ho visto i maiali volare, Gesù Cristo imprecare, ho riso per uno che quando parlava non si capiva niente.

Questi tre attori erano già buffi di loro, uno alto, uno medio e uno basso. Un barese, un toscano ed uno non lo so. Pare l’inizio di una barzelletta da raccontare la domenica in bocciofila. E invece questi sono attori professionisti.

Dunque, andiamo per ordine.

Signori e Signore. Che poi questa la capisce solo chi c’è stato a vedere i Racconti Buffi ma alla fine rivolgermi a più di cento persone mi sembra un numero sufficiente.

Signori e Signore. Vittorio. Mani di libellula, capelli da topo di città.

Ed ecco Beppe, alto e magro, spalle strette piedi lunghi, non chiedetegli se è di “Beri” che vi racconta vita morte e miracoli di come Lino Banfi abbia rovinato la reputazione dell’accento pugliese in Italia. E sappiate che si dice semplicemente “Bari”.

Giuseppe Scoditti racconta di un maiale, della sua maiala che detto così suona male ma intendo dire la sua fidanzata, del regalino di Dio, un bellissimo paio di ali e di come, a volte, una puzzetta possa costarti il posto in paradiso. Tutto in pugliese. Mentre cerchi di non dar peso al male ai muscoli facciali dal ridere, ti complimenti pure con te stesso per aver capito un monologo in un dialetto che non sapevi di conoscere. Sorprendente.

Lorenzo Frediani. Maremma Lorenzo che bischero. Gesù con lui è davvero bambino, un timidone che vuol solo giocare con Pietro e gli altri. Sogna di fare il capo dei giochi, chiama il babbo e fa i capricci, fa i miracoli solo per ingraziarsi gli amichetti. Insomma, è un po’ come quando al mattino ti alzi ed il tuo mignolo incontra lo spigolo del comodino, come quando ti aprono una porta sul muso, come quando, in sostanza, non ti resta che dire “complimenti Gesù, un comportamento molto maturo per una divinità”.

La regia dice che a Piombino c’è un’ottima pasticceria, mi sembrava giusto ringraziare gli sponsor prima di concludere.

E poi entra lui, l’uomo che sul palco non teme confronti con l’arcangelo suo omonimo, l’uomo a cui tutti a fine spettacolo han detto “sei un grande” nonostante sfiori il metro e settanta solo con i tacchi. L’uomo per cui il mio vicino mi ha tirato una pedata sulla schiena mentre si contorceva dal ridere. Ho ancora la tua suola sulle vertebre stronzo. L’uomo che, per dovere di cronaca, risponde al nome di Gabriele Scarpino e che, per venticinque minuti, ci ha ipnotizzati con un monologo in grammelot. Ed ad un certo punto ho pensato che il Piccolo Teatro Giraudi venisse giù a forza della fragorosa risata della vecchina in quinta fila. La cosa mi ha rincuorata, almeno sulle corde vocali non ha rughe la signora.

Che poi a ben pensarci quello che ci ha divertiti non sono state le classiche battute sulle tette, sul sesso, sulle relazioni tra uomini, donne e vigili urbani.

No. Quello che ci ha divertiti è stato vedere Dio che ci mette e ci toglie le ali (l’ufficio legale Redbull mi ha dato il nulla osta per i diritti sulla frase), Gesù che diventa umano non solo fisicamente, ma anche mentalmente. Gesù che sbaglia come noi, che fa i capricci, che si vendica. Abbiamo riso, infine, nel vedere come l’uomo abbia creato la tecnologia rimanendone, in alcuni casi, egli stesso vittima.

Come direbbe Pirandello, Il comico è un “avvertimento del contrario”  ed I Racconti Buffi ce ne hanno dato prova.

Archivi

  • novembre 2021
  • aprile 2021
  • aprile 2020
  • ottobre 2019
  • aprile 2019
  • novembre 2018
  • giugno 2018
  • dicembre 2017
  • novembre 2017
  • settembre 2017
  • dicembre 2016
  • settembre 2016
  • luglio 2016
  • Maggio 2016
  • marzo 2016
  • febbraio 2016
  • gennaio 2016
  • dicembre 2015
  • novembre 2015
  • ottobre 2015
  • settembre 2015
  • agosto 2015
  • luglio 2015
  • giugno 2015
  • Maggio 2015
  • aprile 2015
  • marzo 2015
  • febbraio 2015
  • gennaio 2015
  • dicembre 2014
  • novembre 2014
  • ottobre 2014
  • settembre 2014
  • agosto 2014
  • luglio 2014
  • giugno 2014
  • Maggio 2014
  • aprile 2014
  • marzo 2014
  • febbraio 2014
  • gennaio 2014

Meta

  • Registrati
  • Accedi
Blog su WordPress.com.
  • Segui Siti che segui
    • Fiocco A Collo
    • Segui assieme ad altri 150 follower
    • Hai già un account WordPress.com? Accedi ora.
    • Fiocco A Collo
    • Personalizza
    • Segui Siti che segui
    • Registrati
    • Accedi
    • Segnala questo contenuto
    • Visualizza il sito nel Reader
    • Gestisci gli abbonamenti
    • Riduci la barra