In prima fila

Anche oggi salirò sul palco. I miei soliti concerti, i miei soliti timori, le mie solite cazzate.

Salirò e ti cercherò con lo sguardo. Non mi capita poi spesso sai, abituata com’ero a vederti in prima fila, esattamente al centro del mio cuore.

Ci guardavamo intensamente e per te avrei potuto fare un concerto silenzioso che tanto avresti colto ogni mia emozione, soprattutto quelle che non sono in grado di trasmettere. E invece adesso non ti trovo, sei scivolato in fondo e forse è colpa mia, ti ho tolto la targhetta “riservato” e tu, muto, sei scomparso dal mio centro.

Oggi canterò per te, suonerò per te note che tu già conosci ma che entrambi abbiamo paura di ascoltare.

Ogni mio gesto, fino al mignolo sul microfono, sarà per te. Per nessun altro all’infuori di te. E ti urlerò con lo sguardo di tornare davanti, di applaudirmi in prima fila. Ti cercherò tra la folla e so che ci sarai, fosse anche solo nel mio cuore.

Un saggio una volta mi ha detto che è ben diverso trasmettere emozioni ad un grande pubblico e parlare vis à vis. Ed ecco che confesso di non essere forte come credevo, ed ecco che realizzo che io le mie emozioni guardandoti negli occhi non so dirtele.

Ho paura non so neanche bene di cosa, ho paura che dal fondo della sala tu possa un giorno uscire ed io impazzirei perché saprei che è colpa mia. Di me che m’incendio e mi lascio trascinare dalla rabbia, di me che poi dimentico tutto senza ricordare che gli altri, spesso, non dimenticano.

E allora è come se ti proteggessi da questo fuoco che sento e per non scottarti ti tenessi lontano mentre quello che davvero voglio è portarti qui vicino al mio cuore senza ferirti. Ma ho bisogno di te per fare questo: ho bisogno che tu mi sgridi, che tu mi dica che sono una testa di cazzo facendoti guidare, però, solo dall’affetto. Ho bisogno di sentirti qui vicino e allora facciamo così, lasciami suonare qui davanti a tutti e dopo, quando il sipario sarà calato, beviamoci una birra scadente al chiaro di luna, riapriamo le ferite ma solo per disinfettarle e poi, quando tutto sarà finito, ridiamo fino a toglierci il respiro com’eravamo soliti fare, come saremo soliti fare.

Adesso che già ti sento accanto posso dirtelo: mi sei mancato.

I soliti buoni propositi

Mi piace questa tradizione dei buoni propositi per l’anno nuovo. In pratica, dopo la lettera a Babbo Natale, uno deve fare la lista di ciò che intende fare nel nuovo anno. Tipo un business plan della propria vita.

Investirò di più nei sentimenti, metterò in cassa integrazione lo shopping, investirò su amici, vino e cibo buono.

Mi autotasserò ogni volta che dirò una parolaccia ed userò quel tesoretto per farmi una vacanza in barca.

Ottimizzerò la produzione studiando di più e diminuendo le pause caffè ottenendo così un guadagno al netto della soddisfazione pari a circa millecento sorrisi in più al mese.

Taglierò il tempo perso a farmi problemi inutili investendo un paio d’ore a settimana dedicate alla ricerca delle risposte alle grandi domande sull’universo.

Comprerò dunque un bel cappotto per prepararmi al nobel per la matematica che dubito vincerò. E non lo vincerò perché un’amante di Alfred Nobel se la faceva allegramente con un mago del 2+2, mister Magnus Gustaf Mittag-Leffler, e per colpa della sua bacchetta magica io non potrò mai diventare la prima donna a vincere il nobel per la matematica.

Mai mischiare sesso e affari, sempre detto.

Assumerò nuovi atteggiamenti proponendo una politica aziendale di gentilezza con il prossimo, promuoverò progetti di team building con week end al lago e in montagna.

Metterò l’arte al primo posto per far sì che il lavoro s’ispiri sempre alla bellezza, mi batterò per la vittoria del buon gusto sul pacchiano.

Istituirò un fondo per far fronte agli imprevisti, miele in caso d’amore, corde vocali nuove in caso di  perdita di voce post-concerto, scarpe nuove nel caso consumassi le suole durante viaggi in posti ancora sconosciuti.

Farò dell’ottimismo una religione senza dimenticare di prendere un paracadute, farò meno teatrini quando mi arrabbio ed andrò più sovente a teatro.

Creerò un’ora alla settimana dedicata alla ricerca di cose sconosciute puntando a diventare massima esperta della teoria delle stringhe.

Studierò il tedesco per non sfigurare all’Oktoberfest e per rendere finalmente felice mia Nonna trovando un biondone con dei bei denti. Perché avere dei bei denti è tutto per mia Nonna.

Che poi spero vivamente che mia Nonna non stia leggendo perché il prossimo buon proposito, l’unico che tutti abbiamo, non è quello di essere felici da impazzire, non è quello di fare un bagno nei gettoni d’oro, non è quello di diventare capi del mondo. No.

Il prossimo ed ultimo augurio è terra a terra, è ritorno alle origini, è saper riconoscere che non si può sempre solo guardare in alto, bisogna anche avere il coraggio di abbassare lo sguardo ed osservare il proprio ombelico. Il mio ultimo buon proposito è dunque imparare a lasciarmi andare di più, smettere di fare il ghiacciolo anche ad agosto.

Il mio ultimo buon proposito, in sostanza, è fare più sesso.

Si ringrazia il ministero del Lavoro per il sostegno al progetto “Più sesso per un anno di successo”

A(f)fondo

Ti ho sognato non molto tempo fa. Era notte e stavamo su quel molo che tu sai. Io parlavo e tu non mi guardavi, come fai sempre. Era così realistico che c’ho messo un po’ a capire che non era vero.Ti sei tuffato e ti ho visto andare a fondo, senza pensarci ti ho seguito e ti ho preso per mano. Non potevo perderti, non potevo lasciarti andare giù. Che poi questa è una bella cazzata, sei sempre stato tu a salvarmi. Sempre. Tu mi tendevi la mano e io, io pensavo volessi schiaffeggiarmi. Così per difendermi ti ho tirato un pugno in piena faccia, ti ho messo k.o. Ti ho guardato andare al tappeto con un sorriso soddisfatto, con l’espressione di chi crede di essere finalmente al sicuro. Ti ho eliminato dalla mia vita come una mela marcia dal frigo. È questo il problema delle persone che sono o credono di essere state vittime : sanno esattamente dove colpire quando vogliono fare male. Ho avuto un’ottima mira non c’è che dire, dicono che l’attacco sia la miglior difesa e dammi torto ora che sei a terra. Però nel mio sogno era tutto al contrario: io ti tendevo la mano, io ti riportavo in superficie, io ti stendevo ma solo per rianimarti. Riesci a capire? Lo vedi quanto è illogico? Io che salvo te. Tu che perdi i sensi mentre io mantengo il controllo. Tu debole e io forte come una roccia. Non ero io, non eri tu, non era vero eppure al mattino avevo del sangue dal naso. Quando ti sei svegliato mi hai abbracciata così forte da togliermi il respiro come succede ogni volta che ti vedo. I ruoli iniziavano a ristabilirsi. Il tuo cuore batteva di nuovo forte e io mi sentivo al sicuro. Hai appoggiato le tue labbra sul mio orecchio destro, mi hai detto “allora ho sempre avuto ragione: c’è qualcosa di buono in te, grazie”. È sempre la stessa storia tra noi due. Tu dici una frase e hai il potere di portarmi in paradiso o all’inferno con la stessa leggerezza. Tu annuisci e io volo, tu dissenti e io precipito tra i dannati. Che poi non so se sia colpa mia, voglio dire sono io che ti ho dato il trono o te lo sei preso mentre io ti guardavo sorridente? È che tu senza saperlo mi hai dato così tanto che io cosa vuoi che ti dica? Ma come faccio a spiegartelo che senza di te io avrei mollato tutto e mi sarei lasciata trascinare da una corrente che nemmeno mi piaceva? Ma come faccio a dirtelo che tu mi hai insegnato a risalire il vento per arrivare al mio porto? Come faccio a spiegarti che il mio sogno è tutto sbagliato, che è tutto al contrario, che sei stato tu tu tu e ancora tu a rianimarmi? Tu che hai messo la tua mano sulla mia e mi hai aperto un mondo, tu che mi hai detto “sei brava” con occhi sinceri. Tu che hai buttato a mare come inutili zavorre le mie paure e i miei sensi di colpa dicendomi “in questo viaggio porta solo l’essenziale”. Tu che mi hai devastata con un “ma” sapendo che ormai avevo la forza di reggerlo. E a quel “ma” ho visto nero, accecata da vecchie paure a cui avevo messo il galleggiante. Ho buttato te a mare, ti ho guardato mentre quasi andavi a fondo. Sarebbe stupido però odiare qualcuno solo perchè ci critica, solo perchè non ci ama. Mi sono tuffata a prenderti, ti ho chiesto scusa mentre volevo più di ogni altra cosa sentire quel tuo cuore battere forte e ridarmi il sorriso. Mi hai abbracciata, capisci? Hai abbracciato me che ti avevo fatto del male e, ancora una volta, hai preso le mie insicurezze, hai tolto il galleggiante, e le hai affondate con il suono della tua voce.

Pronto tra vent’anni.

E se davvero mi telefonassi tra vent’anni?
Ci hai mai pensato? Cosa ci diremmo?
“Compra il pane tesoro che io sono ancora nel traffico”.
O forse mi dirai che hai avviato le pratiche, quelle del divorzio.
Sì perché non ce la facevi più, io con le mie ansie e tu con le tue ali che sapevo solo tarpare.
Che poi io nel matrimonio non so nemmeno se crederci.
Forse starò ancora correndo per inseguire ciò che non ho il coraggio di raggiungere. È proprio necessario correre per qualcosa che si ha accanto?
Invece no, tu mi chiamerai e userai il numero privato per stupirmi col suono della tua voce come fai sempre.
Mi chiederai come sto, è da tanto che non ci si sente, ti risponderò che va tutto bene, qualche intoppo a lavoro ma che vuoi è la vita, a casa una meraviglia.
Tu sarai felice, un uomo realizzato che voleva chiamare una persona che tanto gli era stata cara.
Era.
Sì perché non ne abbiamo azzeccate molte, lo sai, e alla fine il tempo, il lavoro, le nostre colpe e il nostro orgoglio ci hanno divisi.
Chissà se dopo aver schiacciato il rosso riprenderemo a camminare tranquilli o se avremo bisogno di sederci su una panchina.
Io mi accenderò una sigaretta, tu no, odi i vizi che non hai.
Guarderemo il vuoto sentendoci vuoti.
Una valanga di ricordi che ti cade addosso con una violenza tale da farti male alle spalle.
Sorrideremo da soli e poi, quando penseremo ai litigi, scuoteremo lievemente la testa pensando a quanto siamo stati stupidi e immaturi, a quando avremmo potuto dire “va bene” anziché intestardirci.
A quando avremmo potuto chiudere un occhio anziché tirarci un pugno, amarci piuttosto che urlarci addosso.
Ci morderemo le labbra come avremmo dovuto fare vent’anni prima, appoggeremo le mani sulle ginocchia e a fatica ci alzeremo tornando meccanicamente al presente.
Sarà dura forse, ma col tempo saremo diventati dei professionisti nel nascondere i sentimenti.
E se, semplicemente,  ti dicessi “certo amore, passo io in panetteria”?
Facciamo così, telefonami tra vent’anni e vediamo che mi dici.

Elogio del dentifricio

In qualsiasi viaggio tra amici che si rispetti lui c’è sempre : quello col dentifricio.

Uomo previdente e dalle mille risorse, è lui che salva l’imbarazzante momento in cui tutti girovagano con uno spazzolino elemosinando non si sa bene cosa.

La mamma del gruppo, il vecchio saggio del villaggio, un uomo che sa girare il mondo o forse semplicemente un maniaco dell’ordine.

Ce lo portiamo dietro solo per questa sua essenziale funzione ?

Tutti con grandi sogni, grandi aspettative, grandi viaggi alla scoperta di noi stessi pensando di essere i nuovi Buddha e poi ci dimentichiamo puntualmente il dentifricio a casa.

Non che Buddha lo usasse, ben inteso, ma è come partire senza la voglia di lavare via il vecchio per lasciare spazio al nuovo.

Un po’ come non leggere il primo capitolo del libro di testo : pensi sempre che non ti tornerà utile fino a quando il professore, indeciso sul voto, ti chiede esattamente la terza riga del quarto paragrafo del manuale e tu ti rendi conto di essere un cretino. Come hai fatto a non pensarci ? Era una cosa così semplice, così banale, così « tanto non me lo chiederà mai », « tanto il dentifricio lo portano già gli altri » e invece scopri che ragioniamo tutti allo stesso modo e rimani fregato da quei piccoli dettagli che fanno la differenza.

Non c’è la mamma come qualche anno fa che ti piega i vestiti, ci sei solo tu e il tuo beauty case, tu e le tue responsabilità.

Mutande prese, calzini pure, quel vestito non posso non portarlo, ma questa maglia ci sta troppo bene con questi pantaloni, il mascara waterproof che non si sa mai, la canottiera che metti faccia freddo, le aspirine che io lo so già che mi sveglio col cerchio alla testa domenica mattina, un costume da bagno, la macchina fotografica, la moleskine per annotare curiosità, l’ipod per isolarsi dal mondo al tramonto, soldi per le birre. E il dentifricio ? Ma che ha fatto di male per essere abbandonato in bagno e attendervi fedele al ritorno come un labrador ? Molto bene uscire tutta truccata e ben vestita la sera ma, tesoro mio, se c’hai la fiatella non farai molta strada.

Non si può partire senza la voglia di fare un viaggio, senza essere pronti a farlo.

Se credi di voler scoprire il mondo allora conta su te stessa e non c’è nulla di filosofico, non devi fare l’eremita o quella super-indipendente-super-tutto che se vuole una mano la trova al fondo del suo braccio, no. Dico solo che devi farti da mamma, pensare ai tuoi bisogni e cercare di soddisfarli senza sperare in qualche povero cristo con un tubetto di mentadent sempre pronto, qualcuno che ti trascini in giro mentre tu passiva lasci che tutto ti scorra attorno.

Se fossi in Irene Grandi riscriverei una delle sue canzoni: prima di partire per un lungo viaggio, porta con te lo spazzolino e il dentifricio.