Le undici meno cinque.

Le undici meno cinque, un normale sabato mattina. Forse dovrei smetterla di fare baldoria, prima o poi il corpo ti presenta il conto e sarà più salato di cinquanta euro di gin tonic.
Fuori piove e perché mai dovrei alzarmi, esiste qualche legge universale che vieti di fare colazione alle due del pomeriggio? Il momento più bello del risveglio il fine settimana è realizzare che nessuno, salvo comunioni di cuginetti di quinto grado e centenari delle nonne, potrà impedirti di girarti dall’altro lato e continuare a dormire. E poi il fine settimana si dorme con arroganza, con la supponenza di chi crede di essere padrone del proprio destino. E ognuno di noi, per quarantotto ore, lo è.
Mi sveglio con la spalla ancora dolorante, però che bello è stato ieri sera.
Le undici meno cinque. Il tempo oggi scorre più lento dei miei pensieri. O forse il tempo si dilata all’infinito quando devi smaltire una sbronza. Ogni fitta alla testa sembra durare ore e invece no, sono sempre le undici meno cinque. Dicono che il caffè allevi i postumi o forse ho solo voglia di caffeina, di una moca che fischi, gorgheggi, insomma che faccia il suo suono e pure il suo dovere, s’intende. Di sigarette non ho voglia, i miei polmoni sembrano una petroliera diretta a Ovest. Chissà se esistono studi scientifici sulla correlazione alcol-sigarette, chissà perché dopo il secondo bicchiere le Marlboro aumentano come il pil della Cina. Sarà che con l’alcol aumenta tutto così tanto che quasi mi sembra di sentirla, la tua nostalgia.
Il caffè è pronto, mi ustiono con il manico. Ma che senso ha riordinare la cucina il venerdì se poi non invito mai nessuno a cena e se il sabato mattina sono troppo pigro per cercare le presine. Al diavolo la caffetteria e le mie abitudini insensate. Almeno mi fossi iscritto al corso di cucina che mi aveva regalato la zia Mimì due natali fa, almeno avrei fatto l’arrosto ai miei amici e bevuto vino buono. Avrei risparmiato i soldi buttati in quel gin scadente, avrei fumato meno e probabilmente avrei evitato questo dolore alla spalla. Devo dire a zia Mimì che dal suo prossimo regalo di Natale potrebbe dipendere il mio futuro, chef o morte.
Le undici meno cinque. Il mio orologio è lo stesso da quindici anni, me l’aveva regalato il nonno dopo l’esame di maturità. Lui aveva questa teoria sugli orologi che non ho mai capito bene, diceva sempre che “gli orologi indicano il tempo due volte: quando lavori ti ricordano che non hai tempo da perdere, quando riposi che nessun tempo è perduto se lo dedichi a te stesso”. Mio nonno era un uomo saggio, o meglio, diciamo che si era inventato questa massima e con essa viveva di rendita, la versione campagnola dei Sex Pistols, tre anni di band, due album e secoli di gloria a venire. Solo che mio nonno avrebbe cantato God Save Bagna Cauda. Il mio pensiero non vuol essere maligno, la mia è invidia allo stato puro, il mio obiettivo nella vita è trovare una sola, semplice, geniale intuizione che mi permetta di vivere in qualche atollo sperduto e fare colazione con latte e ricci di mare. Ho provato con le strart-up ma ogni volta che credevo fosse quella giusta, ecco che fioccavano articoli sull’ultima frontiera del e-commerce di caffettiere di fine ‘800 che spopola tra i collezionisti. Sono arrivato a convincermi che un hacker mi monitorasse il computer sapendo della mia latente genialità ma poi mia madre, a modo suo, mi ha spiegato che era più probabile che il mio cervello avesse immagazzinato ed elaborato informazioni viste di sfuggita su un giornale. Le ho creduto solo perché l’alternativa era lo psichiatra.
Le undici meno cinque. Oggi il tempo sembra non passare più, mi sento come una rana in pentola. Sapete no, la storia di come una stupida rana muore vittima del suo spirito di adattamento? Anni di studi e lodi sul darwinismo, sopravvive chi si adatta, non avrai altra Bibbia al di fuori di Darwin, guarda che canini avevamo ventimila anni fa e poi puff, una rana smentisce tutto. Si perché se tu metti la tua bella ranocchia in una pentola con acqua fredda e accendi piano piano il fuoco, questa si adatta placidamente ad ogni grado fino a rimanerci secca. Bollita in realtà, ma secca suonava meglio. Così può essere che questa sbronza mi stia lentamente uccidendo senza che io me ne accorga, pensare che ero solo un rospo che sognava di diventare principe. E invece adesso sono qui a morire lentamente per l’alcol sperando almeno che la gente si ricordi che avevo gli occhi color nocciola.
Come si attende il compimento del destino? Col vestito buono o in vestaglia sul divano? Con l’abito sicuramente penseranno che stessi aspettando sto benedetto angelo della morte, una specie di suicidio premeditato da artista dannato e ripudiato da una società troppo superficiale per comprendere un animo così complesso. Ma a chi la darei a bere che la mia massima opera surrealista è vomito su neve a capodanno. In vestaglia sembrerei un povero stronzo qualunque a cui hanno portato il conto subito dopo gli antipasti. Magari jeans e maglietta, un paio di sneakers così, come se il male mi avesse colto mentre ero in procinto di uscire a cambiare la mia vita. Decisamente jeans, però con un bel maglioncino per sembrare più serio. Metterò un film ricercato, magari dei fratelli Cohen che chi li ha mai capiti sta a vedere che è la volta buona.
Le undici meno cinque. Ho praticamente finito la filmografia e non ho capito principalmente due cose: perché sono ancora vivo e perché Brad Pitt deve morire dopo venti minuti di pellicola. Voglio dire ingaggi uno come Brad Pitt e me lo liquidi neanche il tempo di una cacata in bagno? Praticamente l’ho visto solo nei titoli di coda.
Mangio un piatto di pasta e vado a letto, sarà più rapida l’attesa. Mi sembra di vedere un tramonto, eccola la fine. Chiudo gli occhi in pace, arrivederci mondo. Chiamerò mia madre da lassù.
Riapro gli occhi e il Sole è alto, il mal di testa è passato e fuori cinguettano i passerotti. Sono in Paradiso, è successo davvero. Mi sembra di avere di nuovo l’energia di bambino alla sua prima partita di calcio, sento il sangue nelle vene. Mi piacerebbe essere vivo solo per dire a tutti quegli intellettuali da due soldi che il Paradiso non è né azzurro né verde né arancione. E’ la tua vita di prima, solo con più vitalità e nessuna responsabilità. Che poi è un paradosso dire che ti senti più vivo da morto o forse non più di quanto lo sia andare a dormire per poi sentirsi più svegli. Una coda che morde il gatto, insomma.
Le undici meno cinque, neanche in Paradiso il tempo scorre velocemente, anzi magari se potessi calcolare la gravità di questo posto potrei scoprire che un secondo dura quasi sette anni. Le torte di compleanno non devono andare per la maggiore qui.
Indosso i pantaloncini, la maglia rossa dei grandi magazzini, inizio a fare qualche esercizio di stretching. Mentre sto allungando i quadricipiti sento il rumore di una chiave entra nella serratura, fa un quarto di giro, la porta si spalanca ed ecco mia madre, di nero vestita, che si rovescia in casa mia come un maratoneta al traguardo. “Ma che diavolo stai facendo conciato in questo modo? Cambiati subito che è tardi!”. Be, se l’angelo della morte è mia madre suppongo che Freud e io avremo molto da discutere. Però che senso avrebbe un angelo della morte in Paradiso? Tipo un vegano che pratichi la pesca sportiva. “Che vuoi dire ma’? tardi per cosa?” “Il funerale di zia Mimì, ma perchè non ascolti mai quando ti parlo? muoviti e metti il vestito buono!”. Un funerale, in Paradiso, il vestito buono, le undici meno cinque. Ma che cavolo di Paradiso è se qui si muore due volte, ma che cavolo viviamo in pace a fare se poi dopo l’ultimo respiro non la luce eterna ma solo un altro dannato ultimo respiro ci aspetta? Ma allora andiamo ad unirci ai cartelli colombiani, andiamo a fare i pirati in mezzo al Pacifico, andiamo dove ci pare che tanto l’unico Karma è che hai da morì, c’avevano ragione i romani mannaggia a loro. “Ma quante volte è già morta questa zia Mimì? Tipo almeno due no?” “oh be vedi, figliolo, dipende: se prendiamo per buona quella volta che l’hai fatta morire per saltare una versione di greco effettivamente questa sarebbe la sua seconda dipartita. Tuttavia, assumendo che il tuo squallido umorismo nero meriterebbe uno schiaffone su quella guancia scavata che ti ritrovi e che le tue doti di iettatore vanno di pari passo con quelle, assolutamente nulle, da cuoco, debbo informarti che quella di un paio di giorni fa è la sua prima ed unica dipartita e tu sei pregato di onorarla andandoti a infilare quel dannato vestito buono che io ti ho comprato visto che i tuoi pochi spicci si trovano nelle casse di un qualche squallido bar.”
Scendiamo in strada e il vestito di lana mi sembra pizzichi meno del solito, lo metterò nella lista dei pro di questo strano Paradiso. Le merde di cane puzzano sempre di merda di cane, peccato, speravo di poter lasciare nella vita terrena tanto orrore.
E’ stato mentre aspettavamo il carro funebre davanti alla Chiesa che ho capito tutto. Le campane hanno suonato dodici rintocchi. Non è possibile, sono le undici meno cinque, dev’esserci un errore. “Mamma, che ore sono?” “Le dodici in punto”. Non è possibile, c’è un errore, sono le undici meno cinque e io sono morto, il tempo qui non può scorrere, l’ho visto io stesso. Ad ogni abbraccio di parente sconosciuto mi getto disperato tra le loro braccia così che, mentre mi consolano per il dolore della perdita di zia Mimì, io avvicino l’orecchio ai loro orologi che scandiscono inesorabilmente lo scorrere dei secondi. Ad ogni scatto della lancetta sento una fitta in mezzo al cuore come se la mia seconda morte fosse lì, ad un passo da me. Le dodici e dieci sull’orologio di mia cugina, le undici meno cinque sul mio. Le dodici e undici sul Rolex finto di zio Carlo, le undici meno cinque sul mio.
Sono dovuto andare a un funerale per capire che ero ancora vivo, una rana che salta fuori dalla pentola giusto in tempo per non finire nel piatto di qualche francese. Com’è possibile che abbia scambiato le pile esaurite di uno stupido orologio per i minuti contati della mia vita? Com’è possibile che abbia pensato che il tempo si fosse fermato solo perchè non lo vedevo scorrere sulle lancette?
Caro Nonno, ti sbagliavi. Gli orologi misurano il tempo tre volte: quando lavori, ti ricordano che non hai tempo da perdere. Quando riposi, che nessun tempo è perduto se lo dedichi a te stesso. Quando si scaricano, che si può vivere benissimo liberi dalla tirannia del tempo, ma che comunque se non cambi le pile un po’ stronzo lo sei.
Sono le undici meno cinque, e non mi sono mai sentito così vivo.

3 pensieri su “Le undici meno cinque.

  1. Ma che bel pezzo, cara!
    Vah che mi fai venir voglia di cominciare a pubblicare anche io me medesimo a mia volta!
    Mah vedremo…
    Comunque bello bello! Povera zia Mimí…

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