Rubrica gastronomica Ripieno di Autostima

Caro lettore,

in questo particolare periodo dell’anno dove le giornate fredde e uggiose ci costringono a passare maggior tempo da soli tra le mura di casa, la rubrica gastronomica Ripieno di Autostima ha selezionato per te due ricette di cui non potrai fare a meno.

Autocommiserazione: due gocce di vittimismo, una manciata di ingiustizie, mescolare con persone meschine e servire con qualche lacrima a temperatura ambiente, voilà.

I vantaggi di questa ricetta includono un immediato stato di benessere e ottima idratazione oculare; tutti gli ingredienti sono facilmente reperibili nella propria comfort zone.

Attenzione: si ricorda che l’utilizzo prolungato di autocommiserazione all’interno della propria dieta potrebbe portare a scarsa capacità di analisi, bassi livelli di empatia e miopia morale. Si rilevano inoltre numerosi casi di autocommiserazione cronica, da sempre correlati alla cecità verso i propri errori. Se ne consiglia dunque un uso fortemente limitato ai casi di assoluta necessità o come antipasto all’autocoscienza.                   

Attenzione: proseguendo oltre nella lettura verrà illustrata una ricetta i cui ingredienti vanno reperiti in luoghi remoti quali il proprio io e il mondo oltre i punti neri del naso. In caso di malessere improvviso fuori dalla propria comfort zone si consiglia l’assunzione di quattro gocce di negazione della realtà a rilascio immediato.

Autocoscienza (difficoltà massima): otto germogli di pure io ho sbagliato e lo riconosco, un chilo di se è vero che gli altri sono stronzi ed è vero che, escluso per me stesso, io sono uno degli altri per tutto il resto del mondo allora anche io posso essere stronzo, aggiungere autostima nella giusta misura (un eccesso rovinerebbe l’equilibrio dei sapori appiattendo tutti gli altri ingredienti, una dose insufficiente renderebbe il piatto ricco di potenzialità ma povero di gusto), condire con autocritica costruttiva e una spruzzata di amor proprio.     

Avviso: in merito ai germogli di pure io ho sbagliato e lo riconosco, si consiglia una sbollentatura prima dell’utilizzo per evitare il classico effetto amaro in bocca. Circa il chilo di anche io posso essere stronzo, si consigliano sperimentazioni di nuovi sapori con l’empatia vegana: sono stato mai un carnefice? E, se sì, ho commesso verso altri ingiustizie di cui adesso ritengo di essere vittima? Autostima, per il calcolo della giusta dose si consiglia una proporzione di due parti di autostima ogni parte di autocritica costruttiva.

Il consumo regolare di autocoscienza è consigliato ad ogni età contribuendo alla crescita personale e alla prevenzione dell’irrigidimento muscolare sulle proprie posizioni.

Si ricorda che una dieta varia è fondamentale per la propria salute mentale, si raccomanda dunque una preponderanza di autocoscienza intervallata da occasionali porzioni di autocommiserazione per potenziare gli effetti terapeutici di entrambe le preparazioni.

Te l’ho mai detto che ti odio?

Te l’ho mai detto che ti odio? Penso proprio di no. In realtà ne sono ragionevolmente sicuro, è un pensiero che ho elaborato da poco, me lo ricorderei se te l’avessi detto. Ne è passato di tempo, così tanto che sotto i ponti sono passati acqua, tronchi e magari anche qualche cadavere di quegli omicidi di cui leggi nella cronaca nera la domenica.

Non fraintendere, non te lo dico con risentimento, né con tristezza: te lo dico come constatazione, per amore della verità. Te lo dico con lo stesso spirito con cui un ufficiale dell’anagrafe timbra un certificato di nascita, per far sapere al mondo che è reale: io ti odio.

Ti chiederai perché arrivo dopo così tanto tempo, dopo che anche i termini della prescrizione sono scaduti. La verità è che non ci avevo mai pensato, ho sempre riempito le mie giornate: il lavoro, gli amici, i viaggi, la famiglia. Ho sempre avuto un moto perpetuo, senza pause, un ritmo perfetto.

È colpa della pandemia. Ci hanno messi in pausa, come levrieri ai blocchi di partenza ma questo cancelletto non si abbassa mai. Hanno fatto bene, è pacifico, ma il punto è che mi hanno fermato. Ho bevuto vino, impastato pizze, sfornato torte, ho addirittura preparato un arrosto ma non sono comunque riuscito a riempire ventiquattro ore. Ho letto libri, visto film agghiaccianti, fatto addominali, ma arrivava sempre il momento del silenzio, del vuoto. La mente umana non è fatta per non pensare, ho cercato di lottare come tentando di educare un jack russel iperattivo ma ho perso. Dicono sempre “non pensarci, cerca di distrarti, vai a fare un giro”, ma il tour del salotto ha perso quasi subito la sua attrattiva.

È successo all’improvviso: mentre mi lavavo la faccia mi sei venuta in mente tu. Non è vero che il tempo è galantuomo, il tempo è un manipolatore di ricordi, è un operatore ecologico che divide la carta dall’organico, che decide se lasciarti i bei momenti o le brutte sensazioni. Io i bei momenti quasi non me li ricordo, forse sono diventati fertilizzante per un campo di tulipani. Mi sono tornate in mente le discussioni, le volte in cui mi hai abbandonato come un cane. Ho elaborato delle risposte perfette, sai? Solo che mi sono sentito come un comico che ha perso il tempo, come un vecchio che ritrova il senno, sì, ma il senno di poi. E non è nemmeno vero, se è questo che stai pensando, che ti odio per il male che mi hai fatto, per come mi hai trattato. Il punto è che odio me stesso, ma fatico ad ammetterlo, per come ti ho lasciato il manico del coltello, per come ti ho aiutata a spingere più a fondo la lama, a darle un quarto di giro. Ho raccolto briciole convincendomi che fossero il tuo amore senza mai alzare la testa: vedi bene che il problema non eri tu, a pensarci bene solo uno stupido non l’avrebbe capito, e io lo sono stato.

Tu adesso sarai lì, leggendo, pensando che stia per arrivare la chiusa filosofica, il pensiero profondo che risolve il dilemma dell’eroe, la morale che ci tira fuori da questo pozzo di tristezza e ci riporta in un campo fiorito ad osservare la forma delle nuvole.

Non sono ancora arrivato a questa fase, è come l’elaborazione del lutto, ho superato la rabbia, mi sono fatto trasportare da un pensiero estemporaneo col viso pieno di sapone, ho cercato di asciugarmelo ma gli occhi sono ancora umidi.

Quando riaprono vengo a trovarti e ti dico che sei una stronza, sarò fuori tempo comico ma voglio solo far sorridere me stesso. O forse, quando riaprono, tornerò a chiuderti sotto la cicatrice che ho sul gomito; fatemi uscire, che a stare qui mi sanguina l’anima.

Le undici meno cinque.

Le undici meno cinque, un normale sabato mattina. Forse dovrei smetterla di fare baldoria, prima o poi il corpo ti presenta il conto e sarà più salato di cinquanta euro di gin tonic.
Fuori piove e perché mai dovrei alzarmi, esiste qualche legge universale che vieti di fare colazione alle due del pomeriggio? Il momento più bello del risveglio il fine settimana è realizzare che nessuno, salvo comunioni di cuginetti di quinto grado e centenari delle nonne, potrà impedirti di girarti dall’altro lato e continuare a dormire. E poi il fine settimana si dorme con arroganza, con la supponenza di chi crede di essere padrone del proprio destino. E ognuno di noi, per quarantotto ore, lo è.
Mi sveglio con la spalla ancora dolorante, però che bello è stato ieri sera.
Le undici meno cinque. Il tempo oggi scorre più lento dei miei pensieri. O forse il tempo si dilata all’infinito quando devi smaltire una sbronza. Ogni fitta alla testa sembra durare ore e invece no, sono sempre le undici meno cinque. Dicono che il caffè allevi i postumi o forse ho solo voglia di caffeina, di una moca che fischi, gorgheggi, insomma che faccia il suo suono e pure il suo dovere, s’intende. Di sigarette non ho voglia, i miei polmoni sembrano una petroliera diretta a Ovest. Chissà se esistono studi scientifici sulla correlazione alcol-sigarette, chissà perché dopo il secondo bicchiere le Marlboro aumentano come il pil della Cina. Sarà che con l’alcol aumenta tutto così tanto che quasi mi sembra di sentirla, la tua nostalgia.
Il caffè è pronto, mi ustiono con il manico. Ma che senso ha riordinare la cucina il venerdì se poi non invito mai nessuno a cena e se il sabato mattina sono troppo pigro per cercare le presine. Al diavolo la caffetteria e le mie abitudini insensate. Almeno mi fossi iscritto al corso di cucina che mi aveva regalato la zia Mimì due natali fa, almeno avrei fatto l’arrosto ai miei amici e bevuto vino buono. Avrei risparmiato i soldi buttati in quel gin scadente, avrei fumato meno e probabilmente avrei evitato questo dolore alla spalla. Devo dire a zia Mimì che dal suo prossimo regalo di Natale potrebbe dipendere il mio futuro, chef o morte.
Le undici meno cinque. Il mio orologio è lo stesso da quindici anni, me l’aveva regalato il nonno dopo l’esame di maturità. Lui aveva questa teoria sugli orologi che non ho mai capito bene, diceva sempre che “gli orologi indicano il tempo due volte: quando lavori ti ricordano che non hai tempo da perdere, quando riposi che nessun tempo è perduto se lo dedichi a te stesso”. Mio nonno era un uomo saggio, o meglio, diciamo che si era inventato questa massima e con essa viveva di rendita, la versione campagnola dei Sex Pistols, tre anni di band, due album e secoli di gloria a venire. Solo che mio nonno avrebbe cantato God Save Bagna Cauda. Il mio pensiero non vuol essere maligno, la mia è invidia allo stato puro, il mio obiettivo nella vita è trovare una sola, semplice, geniale intuizione che mi permetta di vivere in qualche atollo sperduto e fare colazione con latte e ricci di mare. Ho provato con le strart-up ma ogni volta che credevo fosse quella giusta, ecco che fioccavano articoli sull’ultima frontiera del e-commerce di caffettiere di fine ‘800 che spopola tra i collezionisti. Sono arrivato a convincermi che un hacker mi monitorasse il computer sapendo della mia latente genialità ma poi mia madre, a modo suo, mi ha spiegato che era più probabile che il mio cervello avesse immagazzinato ed elaborato informazioni viste di sfuggita su un giornale. Le ho creduto solo perché l’alternativa era lo psichiatra.
Le undici meno cinque. Oggi il tempo sembra non passare più, mi sento come una rana in pentola. Sapete no, la storia di come una stupida rana muore vittima del suo spirito di adattamento? Anni di studi e lodi sul darwinismo, sopravvive chi si adatta, non avrai altra Bibbia al di fuori di Darwin, guarda che canini avevamo ventimila anni fa e poi puff, una rana smentisce tutto. Si perché se tu metti la tua bella ranocchia in una pentola con acqua fredda e accendi piano piano il fuoco, questa si adatta placidamente ad ogni grado fino a rimanerci secca. Bollita in realtà, ma secca suonava meglio. Così può essere che questa sbronza mi stia lentamente uccidendo senza che io me ne accorga, pensare che ero solo un rospo che sognava di diventare principe. E invece adesso sono qui a morire lentamente per l’alcol sperando almeno che la gente si ricordi che avevo gli occhi color nocciola.
Come si attende il compimento del destino? Col vestito buono o in vestaglia sul divano? Con l’abito sicuramente penseranno che stessi aspettando sto benedetto angelo della morte, una specie di suicidio premeditato da artista dannato e ripudiato da una società troppo superficiale per comprendere un animo così complesso. Ma a chi la darei a bere che la mia massima opera surrealista è vomito su neve a capodanno. In vestaglia sembrerei un povero stronzo qualunque a cui hanno portato il conto subito dopo gli antipasti. Magari jeans e maglietta, un paio di sneakers così, come se il male mi avesse colto mentre ero in procinto di uscire a cambiare la mia vita. Decisamente jeans, però con un bel maglioncino per sembrare più serio. Metterò un film ricercato, magari dei fratelli Cohen che chi cazzo li ha mai capiti sta a vedere che è la volta buona.
Le undici meno cinque. Ho praticamente finito la filmografia e non ho capito principalmente due cose: perché sono ancora vivo e perché Brad Pitt deve morire dopo venti minuti di pellicola. Voglio dire ingaggi uno come Brad Pitt e me lo liquidi neanche il tempo di una cacata in bagno? Praticamente l’ho visto solo nei titoli di coda.
Mangio un piatto di pasta e vado a letto, sarà più rapida l’attesa. Mi sembra di vedere un tramonto, eccola la fine. Chiudo gli occhi in pace, arrivederci mondo. Chiamerò mia madre da lassù.
Riapro gli occhi e il Sole è alto, il mal di testa è passato e fuori cinguettano i passerotti. Sono in Paradiso, è successo davvero. Mi sembra di avere di nuovo l’energia di bambino alla sua prima partita di calcio, sento il sangue nelle vene. Mi piacerebbe essere vivo solo per dire a tutti quegli intellettuali da due soldi che il Paradiso non è né azzurro né verde né arancione. E’ la tua vita di prima, solo con più vitalità e nessuna responsabilità. Che poi è un paradosso dire che ti senti più vivo da morto o forse non più di quanto lo sia andare a dormire per poi sentirsi più svegli. Una coda che morde il gatto, insomma.
Le undici meno cinque, neanche in Paradiso il tempo scorre velocemente, anzi magari se potessi calcolare la gravità di questo posto potrei scoprire che un secondo dura quasi sette anni. Le torte di compleanno non devono andare per la maggiore qui.
Indosso i pantaloncini, la maglia rossa dei grandi magazzini, inizio a fare qualche esercizio di stretching. Mentre sto allungando i quadricipiti sento il rumore di una chiave entra nella serratura, fa un quarto di giro, la porta si spalanca ed ecco mia madre, di nero vestita, che si rovescia in casa mia come un maratoneta al traguardo. “Ma che diavolo stai facendo conciato in questo modo? Cambiati subito che è tardi!”. Be, se l’angelo della morte è mia madre suppongo che Freud e io avremmo molto da discutere. Però che senso avrebbe un angelo della morte in Paradiso? Tipo un vegano che pratichi la pesca sportiva. “Che vuoi dire ma’? tardi per cosa?” “Il funerale di zia Mimì, ma perchè non ascolti mai quando ti parlo? muoviti e metti il vestito buono!”. Un funerale, in Paradiso, il vestito buono, le undici meno cinque. Ma che cavolo di Paradiso è se qui si muore due volte, ma che cavolo viviamo in pace a fare se poi dopo l’ultimo respiro non la luce eterna ma solo un altro cazzo di ultimo respiro ci aspetta? Ma allora andiamo ad unirci ai cartelli colombiani, andiamo a fare i pirati in mezzo al Pacifico, andiamo dove ci pare che tanto l’unico Karma è che hai da morì, c’avevano ragione i romani mannaggia a loro. “Ma quante volte è già morta questa zia Mimì? Tipo almeno due no?” “oh be vedi, figliolo, dipende: se prendiamo per buona quella volta che l’hai fatta morire per saltare una versione di greco effettivamente questa sarebbe la sua seconda dipartita. Tuttavia, assumendo che il tuo squallido umorismo nero meriterebbe uno schiaffone su quella guancia scavata che ti ritrovi e che le tue doti di iettatore vanno di pari passo con quelle, assolutamente nulle, da cuoco, debbo informarti che quella di un paio di giorni fa è la sua prima ed unica dipartita e tu sei pregato di onorarla andandoti a infilare quel dannato vestito buono che io ti ho comprato visto che i tuoi pochi spicci si trovano nelle casse di un qualche squallido bar.”
Scendiamo in strada e il vestito di lana mi sembra pizzichi meno del solito, lo metterò nella lista dei pro di questo strano Paradiso. Le merde di cane puzzano sempre di merda di cane, peccato, speravo di poter lasciare nella vita terrena tanto orrore.
E’ stato mentre aspettavamo il carro funebre davanti alla Chiesa che ho capito tutto. Le campane hanno suonato dodici rintocchi. Non è possibile, sono le undici meno cinque, dev’esserci un errore. “Mamma, che ore sono?” “Le dodici in punto”. Non è possibile, c’è un errore, sono le undici meno cinque e io sono morto, il tempo qui non può scorrere, l’ho visto io stesso. Ad ogni abbraccio di parente sconosciuto mi getto disperato tra le loro braccia così che, mentre mi consolano per il dolore della perdita di zia Mimì, io avvicino l’orecchio ai loro orologi che scandiscono inesorabilmente lo scorrere dei secondi. Ad ogni scatto della lancetta sento una fitta in mezzo al cuore come se la mia seconda morte fosse lì, ad un passo da me. Le dodici e dieci sull’orologio di mia cugina, le undici meno cinque sul mio. Le dodici e undici sul Rolex finto di zio Carlo, le undici meno cinque sul mio.
Sono dovuto andare a un funerale per capire che ero ancora vivo, una rana che salta fuori dalla pentola giusto in tempo per non finire nel piatto di qualche francese. Com’è possibile che abbia scambiato le pile esaurite di uno stupido orologio per i minuti contati della mia vita? Com’è possibile che abbia pensato che il tempo si fosse fermato solo perchè non lo vedevo scorrere sulle lancette?
Caro Nonno, ti sbagliavi. Gli orologi misurano il tempo tre volte: quando lavori, ti ricordano che non hai tempo da perdere. Quando riposi, che nessun tempo è perduto se lo dedichi a te stesso. Quando si scaricano, che si può vivere benissimo liberi dalla tirannia del tempo, ma che comunque se non cambi le pile un po’ stronzo lo sei.
Sono le undici meno cinque, e non mi sono mai sentito così vivo.

Oltre la tendina

Da quando ti ho incontrato non è cambiata molto la mia vita.

Non ho bisogno di te, l’amore non è un bisogno, respirare lo è ma sono ragionevolmente sicura che lo facessi anche prima d’incontrarti.  Certo, quando ti vedo il respiro si affanna impercettibilmente ma succede anche quando vado a nuotare. Mi si dilatano le pupille quando ti ho davanti ma non temere, accade anche se guardo le vetrine delle pasticcerie del centro. Mi capita di sentire le farfalle nello stomaco, somigliano a crampi da fame: sono gli effetti della dieta per la prova costume. Rido più spesso, è che bevo più vino. Le persone mi dicono che ho lo sguardo più luminoso, sono le lenti a contatto che riflettono la luce. Mi sento bella anche se sono in tuta e coi capelli raccolti, c’è da dire che mi sono iscritta a pilates e mi è venuto proprio un bel culo.

Vedi, da quando ti ho incontrato la mia vita non è cambiata molto. Certo se ti stringo forte sento come una scossa che mi percorre l’anima ma è che mi dimentico sempre di togliere la vibrazione dal telefono. Che poi non è che non ti conoscessi prima d’incontrarti ma vedi bene che c’è differenza tra “ciao come stai?” e “ciao, ti amo”, non che abbia smesso di chiederti come stai, è solo che adesso in quel “come stai” ci sono anch’io.

Abbino slip e reggiseno, è che proprio non riesco a togliermi dalla testa che se dovesse succedermi qualcosa starebbe male finire in pronto soccorso con le mutandone con gli orsacchiotti. Faccio la ceretta anche in pieno inverno, può essere che con questo clima pazzo il 13 gennaio scoppi la primavera. Guardo la Champions League aspettando il tuo commento tecnico, non che tu ne capisca molto di calcio ma mi piace vedere come si muovono le tue labbra quando parli con passione.

Mi capita di pensare a dei viaggi e mi capita di pensare di farli con te, ogni solitario che si rispetti ha un compagno di avventure. Un po’ come se io e te avessimo quattro gambe, quattro braccia, due teste e un tronco solo. Un mutante orribile a vedersi, certo, ma in una favola che mi leggevano da bambina si diceva che l’essenziale è invisibile agli occhi. E in effetti io ti guardo meglio al buio. Non ho molti soldi in banca ma appena posso ti compro un regalo solo per vedere se i tuoi denti sono sempre bianchi quando sorridi. E lo so che non dovevo ma mi piace infrangere le regole fin da quando ero bambina e bambina, con te, un po’ mi ci sento. Passo più tempo al supermercato per cercare qualcosa che possa piacerti, hai delle fisse notevoli sul cibo.

La verità è che ho meno paura da quando ti ho incontrato. L’altra sera, per esempio, sono scesa in cantina a prendere due birre ed ero sola, non era mai successo. Ho girato la chiave senza pensare alle centinaia di maniaci che da anni si nascondono là sotto, sono entrata decisa e li ho visti uscire uno ad uno, sarà che più aumentano le zampe di gallina più la paura diventa razionale, una ragioniera acchiappa fantasmi con quelle visiere verdi e gli occhiali tondi.

Da quando ti ho incontrato la mia vita non è cambiata molto, io ero sul mio solito aereo nel mio solito posto in economy che non è male,  il sedile non è larghissimo e il cibo ha quello strano retrogusto di plastica ma dal finestrino si vedono le nuvole. Mentre finivo di sistemare il mio bagaglio è arrivata un’assistente di volo dicendomi che c’era un posto libero in prima classe, che se volevo potevo accomodarmi oltre la tendina. È strano perché mi ero sempre chiesta cosa ci fosse oltre la tendina, due mondi separati da un paio di metri di stoffa scura, da un muro di velluto. La fissavo per ore senza mai trovare il coraggio di scostarla, di sbirciare. Temevo che mi avrebbero cacciata in malo modo e invece adesso quasi non mi sono accorta di aver varcato quella soglia, l’ho calpestata come un qualsiasi centimetro di pavimento, quasi come se la paura non avesse fatto in tempo a fermarmi che già ero lontana.

Così sono sullo stesso aereo ma ho un sedile più comodo, i funghi sanno finalmente di funghi e vedo le stesse nuvole ma ho un finestrino tutto per me. Non ho cambiato destinazione, semplicemente ci arriverò sorseggiando champagne oltre la tendina.

Prossima fermata.

Il pullman delle 8:00 è sempre pieno, potrebbero metterne uno ogni minuto che comunque non troveresti un posto a sedere. Sono convinto che ci sia una creatura malvagia che crea cloni di passeggeri solo per dispetto,  non trovo altra soluzione logica. Tendenzialmente mi isolo con un po’ di musica o un buon libro ma oggi ho dimenticato tutto sul tavolino nell’ingresso  e sarò dunque costretto ad origliare le confidenze della liceale cessa che si lamenta del fatto che il ragazzo più carino della scuola non le chiede di uscire. Tesoro rassegnati, gli uomini iniziano a guardare il cervello solo dopo i ventisette, prima o hai un bel sedere o puoi farti suora.

Siamo stretti già alla fermata, salire sul pullman sarà una gara di contorsionismo. L’autista potrebbe fare il giudice e regalare un viaggio gratis al vincitore, si potrebbero organizzare tornei tra le varie linee, non sarebbe male per niente. Eccolo finalmente il Caronte, il traghetto verso l’ufficio, la morte dell’anima.

Non vi ho ancora parlato del mio hobby che punto a far diventare un lavoro nei prossimi vent’anni: annusatore di deodoranti. Di necessità virtù diceva mia nonna ed eccomi qui, in piedi, schiacciato tra circa otto ascelle per tragitto. Ho provato con l’apnea, avevo fatto anche un paio di gare ma non sono mai riuscito a superare le tre fermate consecutive e io di fermate ne devo fare quindici, capite bene che l’ossigeno è più importante del disgusto così mi sono sforzato di trovare il lato positivo della mia orrenda situazione. Potrei consigliare ad ogni passeggero quale deodorante utilizzare, se quello che hanno messo la mattina contiene troppo alcool o se sarebbe meglio optare per un profumo neutro anziché quello al muschio bianco. Ho anche fatto richiesta di assunzione ad una nota azienda del settore, ho il colloquio a breve.

Un ragazzo col giubbotto militare e l’aria sofferente sale a bordo biascicando che ha molto mal di stomaco ed effettivamente è pallido, quasi cadaverico. Una studentessa gli lascia il posto, un’eroina dei tempi moderni e devo dire che mi suscita molta ammirazione: per me trovare posto a sedere equivale a vincere alla lotteria e di sicuro non cedo il biglietto vincente al primo finto infortunato di turno.  Il bus prosegue mentre un signore al mio fianco conclude affari al telefono, indubbiamente è una persona che ci tiene molto alla privacy o più semplicemente è un narcisista e gli piace l’idea di sembrare il Warren Buffet del 5/. Tra un semaforo ed un clacson alla fermata successiva sale una ragazza sui trent’anni e si appiccica alla porta come un topo in trappola, la signora dietro di lei inizia uno strano gioco di sguardi con qualcuno alle mie spalle: annuisce, sorride, parla a mezza bocca. Probabilmente si conoscono. La ragazza sui trenta scende dopo una sola fermata, strano: nessuno aspetta per quindici minuti un bus per poi fare una sola fermata. La signora alle mie spalle dice a gran voce:  “vede? Le facevo segno perché quella ragazza ruba, la vedo sempre e ruba. Si mette vicino alle porte, dà uno spintone e in un secondo ti trovi senza portafogli. Ma io lo dico eh, se io la vedo fare movimenti strani lo dico subito e infatti mi conosce, mi ha vista ed è subito scesa. Che poi uno pensa che sia solo la gente mal vestita a rubare invece questa signora sale sempre ben vestita, non sospetteresti mai e invece zan zan”, ecco svelato il mistero. D’istinto controllo il cellulare in borsa, non so perché ma il mio cervello immediatamente pensa che sia la signora alle mie spalle la vera ladra. In fondo adesso si è conquistata la fiducia di tutti denunciando un furto e la gente è più rilassata, pensa di aver scampato un pericolo, mica ti aspetti che chi urla “attenti al ladro” ti scippi mentre parla. Però sarebbe una tattica infallibile. O forse non mi fido delle persone, non se hanno un pessimo deodorante: il deodorante dice molto sulle persone e questa signora ne ha uno troppo profumato per essere sincera, trasparente.

Una donna incinta mi chiede se scendo alla prossima fermata, mi faccio da parte e la lascio passare. Ora io non so quante donne incinta io abbia visto nella mia vita ma posso assicurarvi che lei ha la felicità dipinta sul viso, ha uno sguardo così luminoso che sicuramente non accende mai le luci in casa. È raggiante e sembra che le malelingue di questo bus non la sfiorino, come se lei stesse volando sopra le teste di tutti, sopra il mondo insieme a quella piccola vita che porta in grembo. Sono sul punto di commuovermi ma improvvisamente mi ricordo che sono le otto e un quarto del mattino e per mia personale attitudine non posso provare sentimenti positivi prima delle otto e trenta. Lei scende e respira a pieni polmoni l’aria pungente del lunedì mattina, io faccio brevi inalazioni di sudori. Proseguiamo mollemente il nostro tragitto. Una ragazza legge Faletti, il vicino tenta di rubarle quelle poche righe che riesce a vedere, Warren Buffet gioca a solitario sul telefono, gli altri guardano il traffico al di là del finestrino.

Avete mai avuto lo strano presentimento che stia per succedere qualcosa di terribile? La netta sensazione che il destino vi stia letteralmente prendendo per il culo?  Forse esiste davvero il sesto senso, forse dovremmo ascoltare di più il nostro istinto.

I miei pensieri vengono interrotti dalle grida di quel giovincello col mal di stomaco:  “la mia ragazza mi ha lasciato e io le ho sempre detto che non potevo vivere senza di lei, non potevo. Lei è perfetta, è la dimostrazione che Dio esiste, lei è l’amore della mia vita e io non posso vivere senza. Così ho fatto una follia e sono salito su questo autobus per andare in ospedale ma è troppo tardi. Scendete tutti, scendete subito, fermate questa cosa se non volete che diventi la vostra tomba. Io non volevo, io chiedo scusa a tutti. Mi dispiace, mi dispiace davvero.”

Nota importante: se non siete in una cucina e sentite un timer suonare non preoccupatevi, sarete morti nel giro di pochi istanti. Avete mai sentito una bomba esplodere dentro lo stomaco di qualcuno? Immagino di no. Bè per vostra curiosità è come ascoltare il più grande rutto della vostra vita solo che, se riuscite a sopravvivere, vi renderete conto di essere pieni di pezzetti di carne, un po’ come se vi tirassero dello spezzatino in piena faccia, sughetto compreso. Io comunque sapevo che quando si è innamorati si sentono le farfalle nello stomaco, mica le bombe. Probabilmente è più veritiera quella storia della scintilla o meglio della miccia. E non provate ad affannarvi o a fare movimenti strani, succede tutto così in fretta che non avete nemmeno il tempo di sbattere le ciglia, nemmeno il tempo di dire “boom”.

Mentre medici e infermieri tentano disperatamente di salvarmi io sono accanto a loro e guardo il mio corpo senza un braccio. Ho sempre detestato i miei bicipiti eppure adesso trovo che per quanto fossero piccoli mi stava proprio bene il braccio destro. Non preoccupatevi per me, sono già qui, sono già alla prossima fermata. Se sono arrabbiato? Perché dovrei? Sono solo morto, niente d’irrimediabile. Non dovrò più andare in ufficio e se mi va bene posso godermi una bella vacanza alle Bahamas, ho sempre voluto farla. Potrei visitare la Patagonia, immergermi con le balene.

Va bene allora io tolgo il disturbo, ora che nessuno mi vede vado a defecare sulla scrivania del mio capo, speriamo solo che la cacca d’angelo puzzi davvero come quella di un neonato.

Mantienimi per mano.

Mi chiamo Loredana e faccio la mantenuta.

Nella vita mi sono sentita dire di tutto. I meno fantasiosi mi danno della puttana, della donna dai facili costumi, alcuni mi chiamano Lolita senza nemmeno sapere cosa significhi.

Nessuno però si è mai sforzato di mettersi davvero nei miei panni, di capire il mio punto di vista. Seduco uomini più ricchi di me per viaggi, scarpe, borse, vestiti, se faccio bene il mio dovere anche automobili. C’è una parola polacca che descrive le donne come me, è “galarianki” e significa, per l’appunto, donna che si concede in cambio di regali.

Il fatto è che io non mi mercifico, io m’innamoro davvero. Certo, m’innamoro dei conti in banca, ma l’amore non per forza è solo quello tra un uomo ed una donna, anche i gay si sposano oggi. In più, miei cari, non è poi così diverso dall’amore dei gentiluomini che frequento. Credete che loro s’innamorino della mia risata, della mia intelligenza, delle mie parole? No signori, s’innamorano del mio culo, del mio seno, delle mie gambe accoglienti. E dunque io vi chiedo dove sta la differenza tra me e loro, tra chi s’innamora della mia pelle e chi s’innamora della pelle di un portafoglio.

Vedete bene che il dubbio si sta lentamente insinuando dentro di voi, che in fondo non avete mai pensato che gli uomini con cui esco sappiano benissimo quale sia il mio obiettivo, che io sappia benissimo quale sia il loro. Credevate davvero che un broker che fattura miliardi di dollari non fosse in grado di riconoscere un suo simile, di riconoscere chi venderebbe l’anima o nel mio caso il corpo per un pugno di quattrini?

La verità è che io e i gentiluomini che frequento ci usiamo a vicenda: io sono il loro bel trofeo da portare fuori e loro sono il mio bancomat. Io non faccio domande scomode e li appago sessualmente, loro mi regalano vestiti. Credete veramente che potrei fare questa vita se non fossi estremamente bella e seducente? Non vi siete mai chiesti perché i pezzi grossi non frequentino quasi mai delle “brave ragazze” magari bruttine e col culo basso? Credete che questi gentiluomini uscirebbero con donne così belle se non avessero così tanti zeri in banca? Sono amorale tanto quanto loro se vogliamo dirla tutta. Solo che nelle vostre piccole menti io passo per la zoccola e loro per il pesce grosso che ha abboccato. Ma siamo entrambi pesci, ma siamo entrambi pescatori. Il mio lavoro è molto simile a quello di una modella, entrambe ci spogliamo davanti a un obiettivo solo che io posso mangiare ostriche e champagne senza dover ingoiare cotone per riempirmi lo stomaco, senza dover pippare cocaina per non sentire la fame. Non ho avuto la fortuna di incontrare il vero amore, tanto vale trovare un compromesso.

Vedete, quello che più mi disturba è la vostra ipocrisia: quante volte avete detto “esco con lui perché è figo, esco con lui perché è quello di cui ho bisogno, mi fa sentire protetta, importante. Esco con lui perché mi ama e anche se io non lo amo bè, ho bisogno di sentirmi amata”? Quante volte avete fatto l’amore sapendo che di amore non c’era traccia, quante volte avete usato dei poveri cretini per rinforzare la vostra autostima? Ecco io sono come voi ma senza ipocrisia, io non nascondo i miei bisogni, non l’ho mai fatto. Io non prendo in giro i miei uomini e loro non prendono in giro me. Abbiamo un accordo, io svuoto i loro lombi, loro riempiono il mio guardaroba.  Lineare, semplice, perfetto. Quindi fatemi un favore, care bacchettone, la prossima volta che volete criticarmi pensate a quante volte voi stesse avete usato i vostri partner solo per futili motivi che non avete avuto il coraggio di ammettere nemmeno a voi stesse. E pensate che invece io ai miei gentiluomini chiedo solo una cosa: tienimi per mano, mantienimi.

 

 

 

Foto: Simone Infantino.

Corso di cucina per amanti inesperti.

Caro Amore,

ti avevo preparato una torta per stasera, una torta con mele e cannella come piace tanto a te.

Mi sentivo così felice mentre la vedevo lievitare, mi sentivo così felice mentre quel caldo profumo si diffondeva nell’aria come musica in un giorno silenzioso.

Era bellissima con quella crosticina così fragile, mi sono persa a guardarla.

Sei la mia primavera, Amore. Averti accanto mi fa venir voglia di essere migliore, di fiorire da un piccolo ramo secco in cui il sapiente giardiniere ha creduto, in cui tu hai creduto sin dal primo istante.

Ti chiederai dove avrò nascosto la torta di mele, avrai alzato velocemente lo sguardo per cercarla.

Non la troverai, l’ho buttata.

Sapeva di copertone con un pizzico di cannella. Ci ho messo così tanto amore nel prepararla che mi è venuto da piangere quando l’ho assaggiata.

Forse l’amore da solo non basta, forse ci vogliono altri ingredienti. Eppure ho seguito la ricetta passo passo, farina, uova, latte, zucchero e lievito. C’era tutto. Anche le mele e la cannella. Setacciare, mescolare, infornare. Forse ho sbagliato la cottura, forse sbagliamo senza rendercene conto.

Ma come fai tu a cucinare così bene, ma come fai tu ad amare così bene? Hai frequentato dei corsi, chi è il tuo maestro? Mi hai insegnato così tante cose che avrei voluto dimostrarti di essere all’altezza, alla tua altezza. Hai rotto i miei muri in punta di piedi ed io invece ho rotto i vasi del salotto mentre urlavo contro me stessa. Mi hai abbracciata mentre tremavo in un angolo e non ho saputo far altro che spingerti lontano. Ma tu sei tornato e mi hai tolto quell’odore selvatico che odiavo così tanto da averlo fatto mio e adesso profumo di torta al cioccolato.

A volte mi chiedo come tu faccia ad amarmi, come tu possa vedere il Sole oltre le mie spine. Semplicemente lo fai. E vedi forse è proprio questo, forse è che mentre setacciavo la farina mi sono cadute alcune spine velenose, non hanno più motivo di proteggermi, non ho motivo di proteggermi da te. E forse sono quelle spine a rovinare le torte, a rovinare l’amore. Ma ho deciso che non voglio compatirmi, voglio capirmi insieme a te. Così ho buttato la torta, l’ho buttata per strada e ho aperto le finestre per non lasciare nemmeno un’ombra di quell’odore amaro.

Sono uscita a ricomprare la farina, il latte, le uova e la cannella. Mettiti il grembiule Amore, fammi un corso di cucina per amanti inesperti.

Stanza 416

Abito in un hotel. È strano a dirsi, più strano ancora a viversi.

Abitare in un hotel, soprattutto se per lavoro, è estraniante. Quanti di voi si mettono il completo per prendere il caffè al mattino? Io lo faccio, non dispongo di una cucina. Quanti di voi vedono Sergio il concierge, e giuro che non è uno squallido gioco di parole, più della propria madre? Salvo che tu non sia la moglie, la figlia o l’amate di Sergio, credo che la risposta sia “io no”. Ritengo utile premettere che non sono un gigolò, una escort, una dominatrice e via dicendo.

Sono un consulente.

Fare il consulente significa fare molti lavori insieme. Innanzitutto l’agente commerciale Samsonite, ho così tante loro valigie che potrei essere sul loro libro paga honoris causa. In secondo luogo testo i mezzi di trasporto nel week end. Potrei farvi un report completo su chi sia meglio tra Trenitalia e Italo, su come si chiami e quale sia il codice fiscale dell’hostess Alitalia del volo delle 20:00, su quali snack valga la pena assaggiare e quali sia meglio evitare prima di un meeting. Lo so, avrei dovuto dire “riunione” ma tra noi consulenti se non inserisci un termine anglofono ogni sei parole paghi da bere, è una legge non scritta ma tremendamente applicata. Ah, durante la settimana naturalmente vado dal cliente di turno il che, diciamocelo, ricorda molto il lavoro di una prostituta. Ma io lo faccio con le cravatte di Marinella. Filo di seta ritorto a mano, mica reggicalze di pizzo cento per cento plastica del cinese alla stazione.

Definirei la mia vita sostanzialmente monotona. Vado in molte città visitandone solo gli alberghi in cui alloggio, prendo più aerei che caffè, cambio più cravatte che fidanzate. Ho sviluppato una notevole abilità nell’inquadrare le persone al primo sguardo. A forza di dover analizzare numeri sono finito ad analizzare anche inconsapevolmente tutto ciò che mi circonda. E ci prendo spesso.

In un ristorante so immediatamente individuare chi è al primo appuntamento, chi è a cena per l’anniversario di un matrimonio che lo annoiava ancora prima del sì, chi sta per fare la proposta, chi è a cena con l’amante. E fidatevi, non sbaglio.

L’altra sera, come  tutte le sere, stavo gustando il mio whiskey nella hall. La coppia che sedeva nel tavolino accanto al mio era senza dubbio di neurochirurghi. C’è un convegno in questi giorni e la città in cui mi trovo non è di sicuro un luogo turistico e, soprattutto, questo non è un albergo turistico.

Parlavano di poesia, lei aveva lunghe mani sottili e un vestito nero estremamente serioso. Lui aveva un completo anonimo, non ricordo esattamente il colore.

Colleghi, vecchi compagni di università. Lui sicuramente proveniva da una famiglia di medici, il padre l’aveva dispoticamente indirizzato verso la chirurgia e lui si era trovato a vivere una vita che sentiva non appartenergli, un po’ come quel suo brutto completo. Lei era la secchiona, quella a cui tutti chiedevano appunti, chiarimenti, suggerimenti durante gli esami. Aveva indubbiamente visto più lodi che uomini nudi ma la medicina, si sa, non ammette rivali in amore.

Ritenendomi più che soddisfatto della mia impeccabile analisi, ho deciso di andare a dormire. C’è stato un momento in cui nessuna persona solitaria vorrebbe trovarsi, il momento in cui prendi l’ascensore con una coppia di sconosciuti. I neurochirurghi pseudo poeti stavano salendo con me e lui, galantemente, le stava proponendo di bere l’ultimo bicchiere in camera sua così da ripassare insieme l’intervento per il congresso.  Erano neurochirurghi dunque, punto per me. Lei, come previsto, si è impercettibilmente irrigidita ma la sua gentilezza ha finalmente prevalso sul suo animo bacchettone ed ha accettato. Caso vuole che l’allegro chirurgo alloggiasse proprio nella stanza accanto alla mia, stanza 416, e con un sorriso pieno d’imbarazzo ci siamo congedati sulle rispettive porte. Lui ci avrebbe timidamente provato, lei si sarebbe, al massimo, lasciata baciare e sarebbe fuggita come una dodicenne al momento di concretizzare. Lui avrebbe bevuto un ultimo bicchiere da solo ripetendosi che se almeno avesse fatto ginecologia qualche donna senza mutandine l’avrebbe vista.

Mi piace inventarmi queste storie, mi piace perché ho sempre ragione. Più che altro non ho nessuno che mi contraddica. Avere ragione ha per me un effetto più calmante del Minias, dormo come un bambino. Credo di essermi addormentato dopo trenta secondi, massimo quaranta.

È successo verso le 4:00. Mi sono svegliato di soprassalto. Pensavo di essere finito in un film splatter di pessima fattura. Svegliato da un urlo, che trama banale. Quando già stavo per chiamare la polizia ho realizzato tuttavia che quelle erano urla, sì, ma di piacere. Hai capito la secchiona. Un secchio pieno d’alcol più che altro. Dopo aver pregato affinché i muri della stanza non cedessero di colpo, dai colpi sarebbe meglio dire, stavo quasi per riaddormentarmi deluso per la mia pessima prestazione da indovino quando la poetessa si è risvegliata.

Neruda scrisse una poesia dal titolo “La poesia” che recitava “la poesia venne a cercarmi… non so come né quando…”. Dev’essere proprio così che succede. Mentre passeggi, mentre bevi un caffè, mentre parli con una sconosciuta in discoteca. È lì che arriva la poesia, è lì che ti assale come un borseggiatore sapientemente nascosto dietro gli angoli bui.  La poesia venne a cercare la neurochirurga in una quiete notte di Dicembre in un mediocre albergo di provincia dopo una notte d’amore non programmata. Fu spontanea, il primo verso uscì naturale come un colpo di tosse dopo il primo tiro di sigaretta, come uno starnuto quando guardi il Sole. Fu durante quella notte che capii che io le persone non le avevo mai capite, che l’apparenza non descrive l’essenza. Fu in quella notte che, dopo un orgasmo, la neurochirurga rispolverò un accento ciociaro mascherato da anni di impeccabile dizione, il cuore non ha “e” aperte che tengano. Fu in quella notte, dicevo, che la frigida secchiona ormai chirurgo urlò con tutto il fiato che aveva nei polmoni “il tuo cazzo è una benedizione”.

La poetessa mi provocò il riso fino alle lacrime e, quando ormai avevo i crampi agli addominali, riuscii a riaddormentarmi.

Avere torto non era mai stato così divertente.

 

 

Ps. La storia è liberamente ispirata a fatti realmente accaduti. Ci sono storie che meritano di essere raccontate e questa è una di quelle.

Il mostro di Loch Ness

Stamattina sono uscita di casa ed ero in ritardo. Come al solito, penserai.

In realtà non sono proprio uscita di casa, è più corretto dire che se non fosse stato per l’impresa di pulizie che lascia sempre il portone aperto mi ci sarei spalmata su quel portone. Magari mi sarebbe venuto un bel nasino alla francese.

Ho messo un piede in strada e mi sono bloccata, di colpo. Credo di aver sorriso per una frazione di secondo. C’era elettricità nell’aria, non ho mai capito bene cosa significhi ma rende l’idea, non trovi? C’era quell’odore di ghiaccio, di neve.

Mi sei venuta in mente tu.

Stava certamente nevicando sui nostri alberi, sul nostro tetto e su quei prati che diventavano più verdi quando noi ridevamo.

Eravamo come sorelle, ti lasciavo finire sempre la mia cioccolata calda. Non l’ho mai più fatto con nessuno. Mi tenevi la mano in seggiovia, ti passavo i compiti di matematica in mezzo ai fazzoletti. Ricordi quando la maestra ci aveva scoperte?  Ti eri soffiata il naso e con l’inchiostro ti eri tatuata per sbaglio un bel “=2” sulla guancia destra.

La mia copertina ha ancora il tuo profumo se chiudo gli occhi. Ci siamo sempre dette che l’amicizia è più forte dell’amore, che la nostra amicizia era più forte del mostro di Loch Ness.

Poi siamo cresciute. Tu in quell’università, io in quell’altra. Tu con i tuoi nuovi amici, io con i miei. È stato come mangiare un cucchiaino di Nutella al giorno e poi accorgersi una domenica mattina che il barattolo è vuoto e i supermercati sono chiusi.

Dovevamo prendere un caffè il sabato, ricordi? Dovevamo prendere un caffè e io non ti ho chiamata. E tu non mi hai chiamata. Non c’è nulla di male nel dimenticarsi le cose, siamo sempre state distratte. Ma ci sentivamo colpevoli, ho pensato che se ti avessi chiesto scusa tu avresti pensato che ormai non m’importava più di te, hai pensato che se mi avessi chiesto scusa io avrei pensato che ormai non t’importava più di me. E in fondo, forse, un po’ era così.

È stata la vergogna di quella svista ad ucciderci. È stata la vergogna travestita da paura travestita da senso di colpa. Roba che ad Halloween avremmo fatto un figurone.

E le nostre vite sono andate avanti. Tutto va avanti, nonostante tutto. L’ho scoperto quando è morto il mio pesce rosso, me lo dicesti tu. Un giorno semplicemente ti svegli e il tuo presente devi chiamarlo passato. Un giorno mi sono svegliata e non ti ho più chiamata.

Ho saputo che l’anno prossimo ti sposerai, ho saputo che m’inviterai. Mi metterò in fondo alla chiesa e piangerò due volte: la prima per la tua felicità, la seconda perché non sarò la tua testimone come avevamo giurato sulle nostre barbie. Sarà strano vederti vestita da cerimonia e non aver scelto l’abito con te, sarà strano non sentirti piangere mentre urli che sei grassa. Sarà strano non toglierti la nutella dalle mani dicendoti che di sicuro non aiuta. O forse non la mangi più, forse sei diventata una fedele del biologico e l’olio di palma lo usi solo per sporcare le pellicce delle signore Bene. La cosa che mi ferirà di più sarà dover stringere la mano a tuo marito, scoprire il suo nome quando ormai avrà già la fede al dito, sentirmi rispondere “ho sentito parlare di te, eravate così amiche”. Sarà un po’ come morire, mi andrà in gangrena il mignolo.

Chissà se gli hai mai dato dello stronzo, se l’hai tradito e quando ti ha detto “ti amo” la prima volta. Chissà dove ti porta a cena, se è bravo a letto e se quando ti guarda nuda tu ti senti bella. Quando ti ha chiesto di sposarti? Vorrei sapere che mobili hai scelto, non dirmi che ancora adori lo stile provenzale. Ti hanno mai bocciata all’università? E tuo padre col tempo è diventato più comprensivo?

Avrei voluto chiamarti una mattina di Marzo. Avevo già composto il tuo numero. È solo che non l’ho fatto. Se fossi tornata dal nulla ci sarebbe voluto del tempo per ritrovare il ritmo delle nostre risate, dei nostri silenzi, delle nostre parole. Il tempo di un caffè, forse. Poi mi sarei sentita costretta a richiamarti per altri dieci caffè perché non esiste la botta e via dei caffè tra amiche, o è un caffè serio o nulla. Ma lo sai, o forse non lo sai, temo le storie serie più del mostro di Loch Ness. Sono per gli inizi molto cauti, i famosi piedi di piombo ed invece con te avrei dovuto fare l’equivalente amichevole di una proposta di matrimonio. Non salti fuori dopo dieci anni per cinque minuti di bevanda amara, è scorretto. E così ho continuato a dormire sperando che quel piccolo angolino vuoto non mi avrebbe più fatta piangere.

E invece mi capita. Nelle mattine come queste, quando c’è aria di neve, io ti penso e quell’elettricità, ne sono sicura, è il tuo pensiero di rimando.

È un po’ come se vivessimo in due mondi paralleli lontanissimi tra loro, due mondi paralleli che si sono incrociati per così tanto tempo che nel mio mondo, nelle mie parole, ci sei tu. Se guardi bene puoi specchiarti. Se t’incontrassi adesso sarei muta, mi sono successe così tante cose in questi ultimi dieci anni che per riassumerle non saprei trovare nulla meglio del silenzio. Se t’incontrassi adesso te lo offrirei quel benedetto caffè, la casualità è senza impegno.

Sai, il mostro di Loch Ness secondo me esiste, dimmi tu se siamo più forti.