Te l’ho mai detto che ti odio?

Te l’ho mai detto che ti odio? Penso proprio di no. In realtà ne sono ragionevolmente sicuro, è un pensiero che ho elaborato da poco, me lo ricorderei se te l’avessi detto. Ne è passato di tempo, così tanto che sotto i ponti sono passati acqua, tronchi e magari anche qualche cadavere di quegli omicidi di cui leggi nella cronaca nera la domenica.

Non fraintendere, non te lo dico con risentimento, né con tristezza: te lo dico come constatazione, per amore della verità. Te lo dico con lo stesso spirito con cui un ufficiale dell’anagrafe timbra un certificato di nascita, per far sapere al mondo che è reale: io ti odio.

Ti chiederai perché arrivo dopo così tanto tempo, dopo che anche i termini della prescrizione sono scaduti. La verità è che non ci avevo mai pensato, ho sempre riempito le mie giornate: il lavoro, gli amici, i viaggi, la famiglia. Ho sempre avuto un moto perpetuo, senza pause, un ritmo perfetto.

È colpa della pandemia. Ci hanno messi in pausa, come levrieri ai blocchi di partenza ma questo cancelletto non si abbassa mai. Hanno fatto bene, è pacifico, ma il punto è che mi hanno fermato. Ho bevuto vino, impastato pizze, sfornato torte, ho addirittura preparato un arrosto ma non sono comunque riuscito a riempire ventiquattro ore. Ho letto libri, visto film agghiaccianti, fatto addominali, ma arrivava sempre il momento del silenzio, del vuoto. La mente umana non è fatta per non pensare, ho cercato di lottare come tentando di educare un jack russel iperattivo ma ho perso. Dicono sempre “non pensarci, cerca di distrarti, vai a fare un giro”, ma il tour del salotto ha perso quasi subito la sua attrattiva.

È successo all’improvviso: mentre mi lavavo la faccia mi sei venuta in mente tu. Non è vero che il tempo è galantuomo, il tempo è un manipolatore di ricordi, è un operatore ecologico che divide la carta dall’organico, che decide se lasciarti i bei momenti o le brutte sensazioni. Io i bei momenti quasi non me li ricordo, forse sono diventati fertilizzante per un campo di tulipani. Mi sono tornate in mente le discussioni, le volte in cui mi hai abbandonato come un cane. Ho elaborato delle risposte perfette, sai? Solo che mi sono sentito come un comico che ha perso il tempo, come un vecchio che ritrova il senno, sì, ma il senno di poi. E non è nemmeno vero, se è questo che stai pensando, che ti odio per il male che mi hai fatto, per come mi hai trattato. Il punto è che odio me stesso, ma fatico ad ammetterlo, per come ti ho lasciato il manico del coltello, per come ti ho aiutata a spingere più a fondo la lama, a darle un quarto di giro. Ho raccolto briciole convincendomi che fossero il tuo amore senza mai alzare la testa: vedi bene che il problema non eri tu, a pensarci bene solo uno stupido non l’avrebbe capito, e io lo sono stato.

Tu adesso sarai lì, leggendo, pensando che stia per arrivare la chiusa filosofica, il pensiero profondo che risolve il dilemma dell’eroe, la morale che ci tira fuori da questo pozzo di tristezza e ci riporta in un campo fiorito ad osservare la forma delle nuvole.

Non sono ancora arrivato a questa fase, è come l’elaborazione del lutto, ho superato la rabbia, mi sono fatto trasportare da un pensiero estemporaneo col viso pieno di sapone, ho cercato di asciugarmelo ma gli occhi sono ancora umidi.

Quando riaprono vengo a trovarti e ti dico che sei una stronza, sarò fuori tempo comico ma voglio solo far sorridere me stesso. O forse, quando riaprono, tornerò a chiuderti sotto la cicatrice che ho sul gomito; fatemi uscire, che a stare qui mi sanguina l’anima.

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