Il mostro di Loch Ness

Stamattina sono uscita di casa ed ero in ritardo. Come al solito, penserai.

In realtà non sono proprio uscita di casa, è più corretto dire che se non fosse stato per l’impresa di pulizie che lascia sempre il portone aperto mi ci sarei spalmata su quel portone. Magari mi sarebbe venuto un bel nasino alla francese.

Ho messo un piede in strada e mi sono bloccata, di colpo. Credo di aver sorriso per una frazione di secondo. C’era elettricità nell’aria, non ho mai capito bene cosa significhi ma rende l’idea, non trovi? C’era quell’odore di ghiaccio, di neve.

Mi sei venuta in mente tu.

Stava certamente nevicando sui nostri alberi, sul nostro tetto e su quei prati che diventavano più verdi quando noi ridevamo.

Eravamo come sorelle, ti lasciavo finire sempre la mia cioccolata calda. Non l’ho mai più fatto con nessuno. Mi tenevi la mano in seggiovia, ti passavo i compiti di matematica in mezzo ai fazzoletti. Ricordi quando la maestra ci aveva scoperte?  Ti eri soffiata il naso e con l’inchiostro ti eri tatuata per sbaglio un bel “=2” sulla guancia destra.

La mia copertina ha ancora il tuo profumo se chiudo gli occhi. Ci siamo sempre dette che l’amicizia è più forte dell’amore, che la nostra amicizia era più forte del mostro di Loch Ness.

Poi siamo cresciute. Tu in quell’università, io in quell’altra. Tu con i tuoi nuovi amici, io con i miei. È stato come mangiare un cucchiaino di Nutella al giorno e poi accorgersi una domenica mattina che il barattolo è vuoto e i supermercati sono chiusi.

Dovevamo prendere un caffè il sabato, ricordi? Dovevamo prendere un caffè e io non ti ho chiamata. E tu non mi hai chiamata. Non c’è nulla di male nel dimenticarsi le cose, siamo sempre state distratte. Ma ci sentivamo colpevoli, ho pensato che se ti avessi chiesto scusa tu avresti pensato che ormai non m’importava più di te, hai pensato che se mi avessi chiesto scusa io avrei pensato che ormai non t’importava più di me. E in fondo, forse, un po’ era così.

È stata la vergogna di quella svista ad ucciderci. È stata la vergogna travestita da paura travestita da senso di colpa. Roba che ad Halloween avremmo fatto un figurone.

E le nostre vite sono andate avanti. Tutto va avanti, nonostante tutto. L’ho scoperto quando è morto il mio pesce rosso, me lo dicesti tu. Un giorno semplicemente ti svegli e il tuo presente devi chiamarlo passato. Un giorno mi sono svegliata e non ti ho più chiamata.

Ho saputo che l’anno prossimo ti sposerai, ho saputo che m’inviterai. Mi metterò in fondo alla chiesa e piangerò due volte: la prima per la tua felicità, la seconda perché non sarò la tua testimone come avevamo giurato sulle nostre barbie. Sarà strano vederti vestita da cerimonia e non aver scelto l’abito con te, sarà strano non sentirti piangere mentre urli che sei grassa. Sarà strano non toglierti la nutella dalle mani dicendoti che di sicuro non aiuta. O forse non la mangi più, forse sei diventata una fedele del biologico e l’olio di palma lo usi solo per sporcare le pellicce delle signore Bene. La cosa che mi ferirà di più sarà dover stringere la mano a tuo marito, scoprire il suo nome quando ormai avrà già la fede al dito, sentirmi rispondere “ho sentito parlare di te, eravate così amiche”. Sarà un po’ come morire, mi andrà in gangrena il mignolo.

Chissà se gli hai mai dato dello stronzo, se l’hai tradito e quando ti ha detto “ti amo” la prima volta. Chissà dove ti porta a cena, se è bravo a letto e se quando ti guarda nuda tu ti senti bella. Quando ti ha chiesto di sposarti? Vorrei sapere che mobili hai scelto, non dirmi che ancora adori lo stile provenzale. Ti hanno mai bocciata all’università? E tuo padre col tempo è diventato più comprensivo?

Avrei voluto chiamarti una mattina di Marzo. Avevo già composto il tuo numero. È solo che non l’ho fatto. Se fossi tornata dal nulla ci sarebbe voluto del tempo per ritrovare il ritmo delle nostre risate, dei nostri silenzi, delle nostre parole. Il tempo di un caffè, forse. Poi mi sarei sentita costretta a richiamarti per altri dieci caffè perché non esiste la botta e via dei caffè tra amiche, o è un caffè serio o nulla. Ma lo sai, o forse non lo sai, temo le storie serie più del mostro di Loch Ness. Sono per gli inizi molto cauti, i famosi piedi di piombo ed invece con te avrei dovuto fare l’equivalente amichevole di una proposta di matrimonio. Non salti fuori dopo dieci anni per cinque minuti di bevanda amara, è scorretto. E così ho continuato a dormire sperando che quel piccolo angolino vuoto non mi avrebbe più fatta piangere.

E invece mi capita. Nelle mattine come queste, quando c’è aria di neve, io ti penso e quell’elettricità, ne sono sicura, è il tuo pensiero di rimando.

È un po’ come se vivessimo in due mondi paralleli lontanissimi tra loro, due mondi paralleli che si sono incrociati per così tanto tempo che nel mio mondo, nelle mie parole, ci sei tu. Se guardi bene puoi specchiarti. Se t’incontrassi adesso sarei muta, mi sono successe così tante cose in questi ultimi dieci anni che per riassumerle non saprei trovare nulla meglio del silenzio. Se t’incontrassi adesso te lo offrirei quel benedetto caffè, la casualità è senza impegno.

Sai, il mostro di Loch Ness secondo me esiste, dimmi tu se siamo più forti.

Hola, mi amor.

Ciao zia,

sono Paolo, ricordi? È da un po’ che non ti scrivo, dal primo anniversario della tua morte.

Ho scritto morte e non quelle espressioni orrende tipo “dipartita, scomparsa” che la gente usa per non dire la temutissima parolina con la emme. Morte.

Tu hai sempre amato la cruda verità, hai sempre odiato le persone che non hanno il coraggio di dirla. In generale hai sempre detestato le persone che non hanno coraggio e mi hai amato alla follia perché dicevi che invece io, di coraggio, ne avevo da vendere. Non so se avevi ragione.

Ricordo perfettamente la tua erre moscia, quel tuo sguardo così profondo che non se ne vedeva la fine. Ti ricordo così bene che potrei disegnare le tue unghie dei piedi ed è strano, sai, è strano perché non ci siamo visti che un paio di settimane. Vivevi dall’altra parte del mondo ma, da quando te ne sei andata, è un po’ come se avessi lasciato un monolocale nel mio cuore. Una casetta piccola senza muri divisori, uno spazio aperto e luminoso in cui, qualche volta, mi rifugio.

Ti scrivo perché sono triste e mi hai sempre detto che mettere nero su bianco il proprio dolore aiuta ad esorcizzarlo, che è come farlo uscire da noi stessi e guardarlo con occhi nuovi, un po’ come pensare ad una persona ed avercela davanti agli occhi. Una gran bella differenza. Così ti scrivo perché spero tu abbia ragione, l’hai sempre avuta.

Mi chiedo zia se quella ferita che ho al fondo della schiena si rimarginerà mai o se invece dovrei usarla come inesauribile fonte di riflessione. L’altro giorno, mentre pensavo che si fosse ormai cicatrizzata, ho stretto la mano ad uno sconosciuto ed è stato come se quest’uomo avesse preso un pugnale per lacerarmi quel punto esatto della schiena, per aprire una finestra del tempo e riportarmi a quei giorni bui. E mentre io viaggiavo il mio cervello era paralizzato, ho pianto dietro le ante di un armadio, ho pianto così tanto che quasi non riuscivo a respirare. Erano anni che non mi succedeva.

Mi dicevi sempre, zia bella, che il nostro corpo ci parla e che sta a noi imparare ad ascoltarlo. Ecco, ho imparato che quando mi succede qualcosa che mi ferisce nel profondo ho una scossa fortissima al braccio, una specie di fitta che parte dalla spalla ed arriva fino al pollice. Quando ho stretto la mano a quello sconosciuto la fitta è stata a tutte e due le braccia. Non ricordo il suo viso né tantomeno il suo nome. Di lui ricordo questa fitta fortissima e le mie lacrime come una diga senza argini. Sarà stato il caso, sarà che erano anni che avevo bisogno di piangere come un bambino quando gli muore il cane. Come se stringendomi la mano avesse tirato via il tappeto facendomi sparire dietro una nuvola di polvere.

Se stessimo parlando davanti ad un caffè come vecchi amici so che non mi chiederesti se ho una ragazza, so che mi guarderesti dritto nelle pupille e cercheresti di capire se sono innamorato. So che lì ti stupiresti d’intuire, perché tu intuisci molte cose, che non lo sono e allora poseresti la tazzina di caffè e mi chiederesti perché non sono innamorato, perché mi nascondo dietro castelli di carte. Ti direi che semplicemente non ho ancora incontrato la persona giusta, nessuna che mi smuova le viscere. Nessuna per cui abbia pianto davvero  anche se per pseudo amore ho pianto. Un uomo si sente vivo quando ama e se non lo fa si convince di essere innamorato per convincersi di essere vivo fino in fondo.  Così ho pianto per illudermi di sentire il mio cuore pulsare più forte. Tu rideresti così  forte da far ridere tutto il bar, è impossibile non essere felici quando tu sorridi. Poi torneresti seria con quel tuo sguardo severo e mi diresti che sono tutte scuse, che la persona giusta non cade come pioggia a primavera, che la persona giusta, cazzo, devi saperla accogliere.  Hai sempre amato dire le parolacce, ti facevano sentire più giovane.

A questo punto azzarderesti una delle tue metafore da donna con le palle, tireresti fuori il calcio. E zia, ammettilo, tu di calcio non ci hai mai capito niente. Mi diresti, ne sono certo, che sono come un ragazzo che sogna di giocare la Champions League ma che salta gli allenamenti, un uomo che sogna una cena al lume di candela ma si dimentica di apparecchiare la tavola. Perché la verità, mi diresti, è che tu non ti concedi d’innamorarti. Ti chiudi nel tuo guscio rifuggendo le persone, continueresti, non ti spogli delle tue paure perché senti freddo ma non ti accorgi che il freddo ce l’hai dentro. Non ti accorgi che nessuno bussa alla tua porta perché, semplicemente, le hai murate tutte. Mi sgrideresti perché, ovviamente, starei piangendo, perché saprei che hai ragione.

“Vuoi bere Barolo ma entri in birreria sapendo che non servono vino e ti lamenti che, cazzo, non hai bevuto ciò che volevi. E ci ritorni ogni sera, e ogni sera ti lamenti. E ogni sera sai che, in fondo, è colpa tua, che basterebbe cercare una vineria. Ma non sai che nome dare a quella forza invisibile che ti impedisce di avventurarti tra le vie del centro e che ti fa entrare, ogni sera, in quella birreria di periferia.”

Ecco zia, adesso la mia fantasia si ferma, non so come continueresti ed è per questo che ti scrivo, per chiederti di dare un nome, per chiederti un consiglio. Mi hai sempre detto di non avere fretta e ti giuro che ho imparato a non averne se non sulle cose importanti. Sai zia, mi sento galleggiare in un mare che non so nemmeno dove sia e vorrei che tu, nel più bello dei miei sogni, venissi a prenderlo questo caffè con me, fosse anche dall’altra parte del mondo. Mi mancano la tua voce, quella tua erre moscia e tutte quelle rughette che avevi intorno alle labbra. Mi mancano la tua aria così austera e quei tuoi abbracci caldi, il tuo orgoglio e la tua dolcezza. Mi manca comporre il tuo numero sul telefono e sentire il tuo “Hola mi amor” dall’altra parte del capo. Vienimi a trovare zia, offro io.

Paolo

Ps. Non sapendo l’indirizzo brucio questa lettera nel camino. Il calore sale così spero che le mie parole arrivino fin da te. Hola, mi amor.

Otto ore di ritardo.

Tutto è iniziato quando sei salita su quell’aereo.

Io qui, tu otto ore avanti.

Quando si sono chiuse le porte mi sono seduto accanto a una signora. Abbiamo pianto insieme. C’era suo figlio in volo con te, c’erano i nostri cuori sotto i vostri sedili. Quella donna mi ha guardato dritto negli occhi e mi ha detto “da quando mio figlio ha iniziato a camminare non sono più stata in grado di raggiungerlo”. Chissà se l’hai conosciuto, si chiama Federico e studia chimica.

Le ho raccontato di te, della tua voglia di girare il mondo e di me che mi sento perso se faccio più del giro dell’isolato. Le ho raccontato che tu le radici le mangi a colazione, che io ho bisogno di sentirle sotto i piedi. Non ricordo che strada ho fatto per tornare a casa. Non ricordo quasi nulla del primo mese senza te.

Dicono che, comunque vada, siamo tutti sotto lo stesso cielo. Noi no, io vedo il tramonto mentre tu osservi il grande carro, io vedo l’alba mentre tu ti ripari dal Sole di mezzodì.

Vorrei sapere chi l’ha deciso che a Est sono avanti mentre ad Ovest si rimane sempre indietro. A nessuno è mai passato per la testa che forse l’alba a Pechino è quella che hanno visto a Chicago il giorno prima, che l’Australia dovrebbe festeggiare il capodanno dodici ore dopo Roma?

Quando guardo l’orologio chiudo gli occhi e m’immagino di cenare con te. Poi li riapro e finisco il mio cappuccino. Freddo.

Ho pensato ad una soluzione, Amore mio. Salirò su una mongolfiera e starò immobile a pochi metri da terra. Io starò immobile e la Terra girerà. Mi passerà sotto i piedi tutto il mondo e spero che uno squalo non mi mangi quando sarà il turno degli oceani. Atterrerò nel tuo giardino come panna montata sulla cioccolata calda di tua zia. Sarò soffice e bianco, più per i miei cali di pressione che altro. Un mio amico dice che non si può, che la gravità ostacola anche il corso naturale dell’amore. Non ti preoccupare, ho comprato le scarpe da corsa.

Salirò sui paralleli e correrò più veloce di un aereo, correrò fino a che la gente non si dimenticherà di Forrest Gump. Mi scoprirai al tuo fianco mentre camminerai in riva al mare, ti prenderò la mano mentre fisserai l’oceano cercando di scorgermi oltre l’orizzonte. Supererò i fusi orari come le righe delle piastrelle, arriverò e non saprò che ore saranno. Non avrò di certo avuto il tempo di spostare le lancette.

Mi sentirai soffiare sulla tua minestra mentre m’immagini raffreddare la mia tazza di tè francese, mi sentirai russare sul tuo cuscino mentre m’immagini chino a lavorare.

E se non trovassi il parallelo, mi dirai, se ti perdessi all’incrocio col primo meridiano? Non ci si può perdere nell’immaginazione, ti direi. E non c’è cosa più immaginaria del tempo, lo so bene.

Ti sposo ma nulla di serio.

Ho deciso che ti sposo, stai tranquilla non è nulla di serio.

Ti sposo ma voglio che sia leggero come i tuoi vestiti di seta. Dire che è una cosa seria mi fa subito intristire, mi farebbe sentire uno di quei pinguini in giacca e cravatta sempre dritti con la schiena, sempre bassi con lo sguardo per non inciamparsi nelle loro scarpe di vernice.

Ho deciso che ti sposo per come muovi le mani quando ti arrabbi, che io mica riesco ad arrabbiarmi davvero con te che disegni nell’aria.

Ho deciso che ti sposo per come mi stringi quando facciamo l’amore, per come afferri la mia anima e la tieni al sicuro.

Ho deciso che ti sposo perché se c’è una cosa che voglio fare nella vita è contarci le rughe una ad una come stelle a San Lorenzo.

Ho deciso che ti sposo perché non trovavo una scusa plausibile per regalarti un anello uguale al mio. Sai quelle cose un po’ infantili tipo il braccialetto dell’amicizia, ecco una cosa del genere. Puoi metterlo dove vuoi, anche nell’alluce destro se ti va, l’importante è sapere che io e te avremo qualcosa di uguale ed unico al mondo. Che a ben pensarci è una contraddizione ma non è che sia famoso per la coerenza.

Ti sposo ma non è nulla di serio, nessuna gabbia e nessun limite, voglio essere libero di amarti ed essere amato.

Ti sposo perché alle feste mi diverto da morire e faremo una festa enorme con amici, parenti ed una piscina di vino bianco.   

Con gli anni ti tingerai i capelli per paura di vederli ingrigire e io sicuramente non avrò mai il coraggio di dirti che quando ti guardo io ci vedo tutti i colori dell’arcobaleno.

Ti sposo perché sono sicuro, sicuro di voler passare il resto della mia vita libero insieme a te.

È solo che mi è rimasta quella paura un po’ infantile, quelle cose che la mamma esce per fare la spesa e tu vai nel panico pregando perché torni e alla fine lei torna sempre. Ecco io voglio guardarti negli occhi e sentirmi dire “sì”, perché quel sì vorrà dire che entrerai ogni giorno dalla porta principale con il latte e due baguette ancora calde. Tranquilla, io ti starò aspettando con due calici di vino francese.

E vedi bene che sono ancora un po’ bambino, che ho ancora delle paure dietro ai muscoli e lo sguardo da duro.

Ti sposo ma non è nulla di serio perché la verità è che lo faccio perché se non avessi il tuo sorriso il cuore mi batterebbe un po’ più lentamente.

Così ti sposo per vederti sorridere giorno dopo giorno e capisci anche tu che non può essere nulla di serio, perché l’unica cosa seria del nostro matrimonio è che io ti amo, ma ti amo col sorriso.

E penserai che sono un po’ sciocco, un eterno fanciullo e per darti ragione, perché qualche volta la ragione ce l’hai anche tu, ti lascio un bigliettino al fondo di questa lettera e barra pure la casella che vuoi, sai che sono estremamente democratico.

Fai con calma, ti aspetto in cucina.

daje

 

Nella testa di mia nonna

Nella testa di mia nonna tutto è come lei vorrebbe che fosse: i desideri si realizzano, le cose brutte svaniscono.

Nella testa di mia nonna la realtà è emigrata lasciando spazio alla fantasia.

Nella testa di mia nonna un giorno di pioggia diventa soleggiato, il caldo afoso un tiepido venticello.

Nella testa di mia nonna la sofferenza non esiste, tutti stanno bene e lei capisce solo quello che pensa. Si passa una vita intera a pensare agli altri, a ricordarsi nomi, date, luoghi che alla fine tutto si fa luminoso, semplice luce che cancella il buio.

Nella testa di mia nonna l’unica nuvola è quando la realtà, timida, bussa a ricordarle che lei di ricordi ne ha ben pochi. Rimangono la gioventù, le vacanze in barca, l’amore della famiglia, il lavoro. Scompaiono con un colpo di spugna le ultime ore, quasi come se fosse un nastro sempre nuovo su cui incidere solo sorrisi.

Si ascoltano così tante lacrime, così tante cazzate, così tanti lamenti che alla fine si diventa quasi sordi al resto del mondo.  Ci si chiude in sé stessi quasi a dire che non si ha più voce per ascoltare, quasi a dire “vaffanculo” perché si passa così tanto tempo a rimanere ingessati, così tanto tempo a sorridere invece di arrabbiarsi perché non si rispetterebbe l’etichetta, che alla fine l’etichetta si taglia pure dai vestiti, che alla fine ad ottantaquattro anni si può dire “vaffanculo”.

E mia nonna ci sente poco ma ha denti perfetti, le è sempre piaciuto sorridere. Mia nonna da quando sono nata non ha mai cambiato pettinatura, i veri cambiamenti non si attuano che nell’anima.

Mia nonna legge sempre gli stessi libri e se le chiedi “non ti sei stufata di leggere le stesse storie?” ti risponde “è sempre come se fossero nuove, me le dimentico ogni volta” un po’ come i bambini con le favole.

E così ad ottantaquattro anni mia nonna si è creata il suo piccolo mondo fatto di poche voci e tanti sorrisi, così che per la nonna la realtà è più bella di quella fuori dal suo terrazzo fiorito, i rumori sono ovattati, il caldo è meno caldo, gli abbracci sono più veri.

Per mia nonna io sono ogni giorno più alta, ma per favore non ditele che è la sua schiena ad incurvarsi un po’ di più.

La Verità in tasca.

John era un uomo alto, bello.

Gli si poteva dire tutto, tranne che non fosse perfetto. Nessuno mai aveva potuto anche solo pensare che John non fosse l’uomo giusto al momento giusto.

Era una persona eccezionale, di quelle che forse neanche esistono davvero. Non arrivava mai in ritardo, era gentile, intelligente e non andava mai oltre le righe, nemmeno quelle delle piastrelle. John aveva un ottimo lavoro, non diceva mai la parola sbagliata. Andava a cena con la Regina d’Inghilterra e col barbone che beveva per annebbiare la realtà.

Si diceva che John indossasse da circa quarant’anni gli stessi pantaloni, che la sarta del paese glieli rattoppasse ogni cinque lunedì e che quei pantaloni fossero semplicemente perfetti. La tasca destra era cucita e tutti sapevano il perché.

La leggenda narra che da bambino John andò a giocare nel bosco dietro casa e lì, all’ombra di un tiglio, vide una cosina tutta piccola, tutta tremante.

“Sono piccola ma ingombrante” disse questa cosina a John, “ posso stare in una tasca, ma è nella testa che non riesco ad entrare. Sono la Verità, la Verità in tasca.”

Fu così che John la portò con sé e la cucì per paura di perderla.  Le aveva sempre chiesto consiglio e lei rispondeva dicendogli che la Verità è sacra ma non sempre utile.

John era perfetto, dopo un solo sguardo capiva la natura più profonda delle persone e sapeva come usarla. Si dice spesso che il troppo potere concentrato nelle mani di una sola persona possa portare a conseguenze disastrose, ma questo non era il caso di John. Ad uno sguardo più attento si poteva dire che forse a John del potere non interessava anche se il motivo rimase per lungo tempo un mistero.

Ci sono persone sulle quali si potrebbero scrivere centinaia di pagine, ma solo un vecchio del paese buttò giù appena dieci righe sull’uomo con la Verità in tasca.

Era inverno quando lo incontrai, ero stremato dopo un violento temporale lungo la strada del mio pellegrinaggio.

Si pensa spesso che per trovare se stessi occorra andare lontano ma a me accadde ad appena venti chilometri da casa.

Un anziano signore mi aprì la porta del bar del paese e John mi offrì un tè caldo. Chiedendomi cosa ci facesse un ragazzino a piedi da solo nel rigido inverno della brughiera, mi disse queste poche parole:

“ Ho sempre pensato che avere la risposta giusta fosse la chiave della felicità. Ho sempre pensato che non sbagliare mai una mossa, non avere mai una mancanza fosse ciò cui aspirare nella vita. Perché credevo che questa fosse la sola ed unica via. Perché noi tutti demonizziamo l’errore, il caso, la zona d’ombra dove crediamo di non poter vedere, perché nel senso di colpa noi percepiamo solo un peso e non un trampolino. Ma la verità è che se nessuno più sbagliasse una risposta la vita sarebbe terribilmente noiosa, la verità è che io nonostante abbia la Verità in tasca della vita non so percepire altro che il nulla, un’autostrada dritta senza panorama. Se nessuno più fallisse nella ricerca non solo non ci si godrebbe il viaggio, ma nemmeno sapremmo quale meta dobbiamo raggiungere. Dicono di me che sono perfetto, ma è dentro di me che la vita ha smesso di esserci quando ho deciso che avrei  sempre avuto la risposta giusta. Ed ecco che a te, giovane pellegrino, io regalo la tensione della scelta, il brivido della vita, il caos primordiale. Qui sul tavolo io poggerò la mia Verità di cui non ho più bisogno e ti lascio la possibilità di portarla con te ovunque tu vorrai. Pensaci bene, tuttavia, e chiediti se anche il più saggio degli uomini non abbia mai commesso errori, se anche il più saggio degli uomini conservi ancora zone grigie. Io sono morto dentro, figliolo, e per la prima volta nella mia vita realizzo che io di sbaglio ne ho fatto uno soltanto: ho messo in tasca la Verità buttando nel cestino la mia anima. E adesso, per la prima volta in vita mia, devo finalmente chiedere scusa, innanzitutto a me stesso”.

Andai al suo funerale qualche giorno più tardi e sulla lapide erano incise queste parole:

“La verità è che di Verità si muore” .

Forse che senza errori l’esistenza stessa diventa un errore? Forse che possedendo la Verità in tasca si finisce col vivere nell’illusione?

Non lo so e non lo saprò mai. Perché io la verità l’ho rimessa sotto il tiglio e ancora oggi, dopo anni, ogni volta che non trovo risposta alle mie domande sorrido pensando a John.

Ad occhi chiusi.

Hai sentito la mia carezza?
Hai sentito la mia carezza questa notte mentre ti addormentavi sfinita da lacrime malinconiche?
Vedi, mia cara, adesso ti riconosco. Adesso ricordo anche la piccola fossetta che ti viene quando sorridi davvero.
Percepisci, mia adorata, un leggero tepore sulla tua mano? Chiudi gli occhi, immagina che sia io a carezzarti.
Forse che quando abbandoniamo le vesti terrene il pensiero diventa impercettibilmente fisico, una leggera brezza tra i tuoi lunghi capelli, un battito di ciglia che scatena uragani.
C’è una tale pace qui, le farfalle vivono secoli interi.
C’è una tale pace qui che quando piove l’acqua è dolce rugiada, che se l’assaggi sa di vino francese.
C’è una tale pace qui che vorrei dirti, mia amata, di pensarmi così, leggera e in equilibrio. Un cerchio di luce, nuvola bianca.
Abbiamo così paura del cambiamento che abbandonare il fisico ci atterrisce al punto da annebbiarci il cervello, al punto che  non vogliamo più ricordarci come sia la vita per evitare di pensare alla morte.
Ma io ti dico, mia cara, non si muore che negli organi, non si muore che nelle cellule, non si muore che nei capelli che non dovremo più sistemare.
E allora guardami vivere, guardami gioire al tuo fianco come ieri quando una farfalla ti passerà accanto, quando il vento saprà di fresco, quando una mano ti fermerà sulle strisce pedonali, quando sorridendo penserai che, adesso, la tua stanza profuma di eucalipto.
Buon viaggio Amore mio, ti auguro di imparare, nel bene e nel male, quante più cose possibili.
Ti auguro l’ingenuità con chi è senza malizia, ti auguro solide armature con chi vuole solo calpestarti.
Ti auguro di guardare il mondo con gli occhi di un bambino, di non perdere mai la curiosità innocente.
Ti auguro di donare amore senza condizioni e di riceverne altrettanto.
Vorrei proteggerti da tutto, tesoro mio bello, ma per quanto mi costi caro dirti che non posso, credo che per avvertire fino in fondo la gioia si debba sperimentare anche il dolore.
Non preoccuparti per me, io continuo a vivere nell’aria che ti asciuga il viso.

Per sempre,
da sempre
con infinito amore.