Il mostro di Loch Ness

Stamattina sono uscita di casa ed ero in ritardo. Come al solito, penserai.

In realtà non sono proprio uscita di casa, è più corretto dire che se non fosse stato per l’impresa di pulizie che lascia sempre il portone aperto mi ci sarei spalmata su quel portone. Magari mi sarebbe venuto un bel nasino alla francese.

Ho messo un piede in strada e mi sono bloccata, di colpo. Credo di aver sorriso per una frazione di secondo. C’era elettricità nell’aria, non ho mai capito bene cosa significhi ma rende l’idea, non trovi? C’era quell’odore di ghiaccio, di neve.

Mi sei venuta in mente tu.

Stava certamente nevicando sui nostri alberi, sul nostro tetto e su quei prati che diventavano più verdi quando noi ridevamo.

Eravamo come sorelle, ti lasciavo finire sempre la mia cioccolata calda. Non l’ho mai più fatto con nessuno. Mi tenevi la mano in seggiovia, ti passavo i compiti di matematica in mezzo ai fazzoletti. Ricordi quando la maestra ci aveva scoperte?  Ti eri soffiata il naso e con l’inchiostro ti eri tatuata per sbaglio un bel “=2” sulla guancia destra.

La mia copertina ha ancora il tuo profumo se chiudo gli occhi. Ci siamo sempre dette che l’amicizia è più forte dell’amore, che la nostra amicizia era più forte del mostro di Loch Ness.

Poi siamo cresciute. Tu in quell’università, io in quell’altra. Tu con i tuoi nuovi amici, io con i miei. È stato come mangiare un cucchiaino di Nutella al giorno e poi accorgersi una domenica mattina che il barattolo è vuoto e i supermercati sono chiusi.

Dovevamo prendere un caffè il sabato, ricordi? Dovevamo prendere un caffè e io non ti ho chiamata. E tu non mi hai chiamata. Non c’è nulla di male nel dimenticarsi le cose, siamo sempre state distratte. Ma ci sentivamo colpevoli, ho pensato che se ti avessi chiesto scusa tu avresti pensato che ormai non m’importava più di te, hai pensato che se mi avessi chiesto scusa io avrei pensato che ormai non t’importava più di me. E in fondo, forse, un po’ era così.

È stata la vergogna di quella svista ad ucciderci. È stata la vergogna travestita da paura travestita da senso di colpa. Roba che ad Halloween avremmo fatto un figurone.

E le nostre vite sono andate avanti. Tutto va avanti, nonostante tutto. L’ho scoperto quando è morto il mio pesce rosso, me lo dicesti tu. Un giorno semplicemente ti svegli e il tuo presente devi chiamarlo passato. Un giorno mi sono svegliata e non ti ho più chiamata.

Ho saputo che l’anno prossimo ti sposerai, ho saputo che m’inviterai. Mi metterò in fondo alla chiesa e piangerò due volte: la prima per la tua felicità, la seconda perché non sarò la tua testimone come avevamo giurato sulle nostre barbie. Sarà strano vederti vestita da cerimonia e non aver scelto l’abito con te, sarà strano non sentirti piangere mentre urli che sei grassa. Sarà strano non toglierti la nutella dalle mani dicendoti che di sicuro non aiuta. O forse non la mangi più, forse sei diventata una fedele del biologico e l’olio di palma lo usi solo per sporcare le pellicce delle signore Bene. La cosa che mi ferirà di più sarà dover stringere la mano a tuo marito, scoprire il suo nome quando ormai avrà già la fede al dito, sentirmi rispondere “ho sentito parlare di te, eravate così amiche”. Sarà un po’ come morire, mi andrà in gangrena il mignolo.

Chissà se gli hai mai dato dello stronzo, se l’hai tradito e quando ti ha detto “ti amo” la prima volta. Chissà dove ti porta a cena, se è bravo a letto e se quando ti guarda nuda tu ti senti bella. Quando ti ha chiesto di sposarti? Vorrei sapere che mobili hai scelto, non dirmi che ancora adori lo stile provenzale. Ti hanno mai bocciata all’università? E tuo padre col tempo è diventato più comprensivo?

Avrei voluto chiamarti una mattina di Marzo. Avevo già composto il tuo numero. È solo che non l’ho fatto. Se fossi tornata dal nulla ci sarebbe voluto del tempo per ritrovare il ritmo delle nostre risate, dei nostri silenzi, delle nostre parole. Il tempo di un caffè, forse. Poi mi sarei sentita costretta a richiamarti per altri dieci caffè perché non esiste la botta e via dei caffè tra amiche, o è un caffè serio o nulla. Ma lo sai, o forse non lo sai, temo le storie serie più del mostro di Loch Ness. Sono per gli inizi molto cauti, i famosi piedi di piombo ed invece con te avrei dovuto fare l’equivalente amichevole di una proposta di matrimonio. Non salti fuori dopo dieci anni per cinque minuti di bevanda amara, è scorretto. E così ho continuato a dormire sperando che quel piccolo angolino vuoto non mi avrebbe più fatta piangere.

E invece mi capita. Nelle mattine come queste, quando c’è aria di neve, io ti penso e quell’elettricità, ne sono sicura, è il tuo pensiero di rimando.

È un po’ come se vivessimo in due mondi paralleli lontanissimi tra loro, due mondi paralleli che si sono incrociati per così tanto tempo che nel mio mondo, nelle mie parole, ci sei tu. Se guardi bene puoi specchiarti. Se t’incontrassi adesso sarei muta, mi sono successe così tante cose in questi ultimi dieci anni che per riassumerle non saprei trovare nulla meglio del silenzio. Se t’incontrassi adesso te lo offrirei quel benedetto caffè, la casualità è senza impegno.

Sai, il mostro di Loch Ness secondo me esiste, dimmi tu se siamo più forti.

È la trentesima volta che compio gli anni.

E sono trenta, chi l’avrebbe mai detto. Quando ero piccola credevo che i quindicenni fossero vecchi, poi ho iniziato a pensare che solo coi diciotto si diventasse grandi. A ventitré credevo che a trent’anni ci sarei arrivata diversamente. Credevo che sarei stata una donna realizzata sotto ogni aspetto, ricca, felice e di successo. Non che abbia troppo di cui lamentarmi, ci mancherebbe. È ovvio qualche zero in più in banca farebbe comodo a tutti, ma va bene anche così. Insomma ho capito che man mano che si cresce s’invecchia più tardi, che si diventa grandi tra qualche anno, un po’ come le diete del lunedì. È banale, no, iniziare la dieta il primo giorno della settimana? Propongo di farlo di mercoledì, una media perfetta tra lavoro e weekend. Propongo di decidere di crescere a metà della decina, di fare i propositi per l’anno nuovo a ferragosto.
Stavo pensando al liceo, alle prime ciucche, ai primi amori che ti spezzano il cuore come un ramo secco. Stavo pensando a quanto fosse facile quando l’unico problema era essere bella, prendere un bel voto a scuola.
Ricordo l’università, l’erasmus, i sogni che ho vissuto e quelli che vedo solo la notte quando chiudo gli occhi. Era davvero perfetto ma, si sa, non c’è nulla di eterno.
Bacerei ognuno di voi,amici miei. Bacerei chi mi è sempre stato accanto, chi ha abbandonato il nostro cammino per seguire nuove strade, chi si è aggiunto per strada e non lo scolli più. È strano a pensarci ma tutti, nessuno escluso, avete apportato qualcosa alla mia vita, fosse anche un sorriso o una lacrima amara. Da piccola pensavo che a trent’anni la mia vita sarebbe stata già scritta, che non avrei avuto più nulla da scoprire e invece adesso che trent’anni li ho tutti,  bè adesso penso che sia appena cominciata.
Ho imparato a seguire i miei sogni senza illudermi, ho imparato che devi sudare per essere felice, che l’amore non basta a se stesso. Ho imparato che con un paio di cocktail siamo tutti più saggi, che quando siamo soli abbiamo tutti più paura. Ho imparato che non voglio fermarmi,costruirò fondamenta solide per i miei castelli in aria.
È la trentesima volta che compio gli anni e ho imparato, soprattutto, che io qui ho ancora molto da imparare. Per fortuna.

Buon compleanno Lauretta.

Ancora.

Caro Amore,

spero che la tua giornata a lavoro sia andata bene. Spero che tu non ti sia stressato troppo, spero che tu non abbia inveito contro gli automobilisti che non scattano un millesimo di secondo dopo il verde come fai sempre.

Mentre leggi questa lettera sentirai un profumo dalla cucina, sono le lasagne che ti ho lasciato in forno. Le ho fatte con le mie mani, le ho cucinate per te.

Sarai entrato in casa chiamandomi e, non sentendo risposta, avrai pensato che sono ancora alla mia stupida lezione di yoga.

Non avrai notato che ho tolto il quadro della ballerina dal soggiorno. Bene, ora che hai guardato il muro avrai visto il tuo poster preferito con cui ho colmato il vuoto di quella parete.

Oggi non sono andata a lavoro, ho preso qualche giorno di ferie. Mi dispiace per le sbavature d’inchiostro su questa lettera, è che sono un po’ emozionata.

Ho deciso che non ti sposo. Né ora né mai.

Ho già portato via tutte le mie cose, non preoccuparti. Non che tu l’abbia mai fatto, s’intende, ma lo dico nel caso decidessi di iniziare a farlo oggi. So badare a me stessa, e lo sai bene.

Ora ho un dubbio atroce nella testa: cosa starai pensando della mia frase “ho deciso che non ti sposo”?  ho due ipotesi a riguardo: nella prima tu stai ridendo della grossa pensando che sia una delle mie solite crisi, di quando mi sento confusa, agitata e depressa ma dopo quarantotto ore torno normale. Nella seconda stai inveendo contro di me dandomi della stronza e scervellandoti sul perché io abbia deciso di scriverti anziché guardarti negli occhi e dirtelo. In entrambi i casi, spero che tu non abbia ancora stracciato questi pochi fogli e che stia continuando leggere.

Ho chiesto il trasferimento a lavoro, torno a casa mia. Sono tre mesi che aspetto questo momento e finalmente è arrivato. Avevo anche provato ad accennartelo ma, come al solito, i tuoi capelli fuori posto erano più importanti dei miei inutili “problemucoli da femminuccia”.

Non voglio che tu ora pensi  io sia arrabbiata con te, che ti reputi una persona malvagia o quant’altro. Ho semplicemente deciso di cambiare vita.

La verità è che quando ci siamo conosciuti all’università tu eri devastato dai tuoi problemi esistenziali e credevi fossi la tua ancora di salvataggio. E lo sono stata. Credevo di essere felice, l’ho sempre pensato. Ti avevo preso per mano e insieme avevamo sorriso, e insieme abbiamo amato. Quello che non sapevo è che le ancore sono fatte per essere gettate a fondo, e tu mi hai gettata con una violenza inaudita. Un po’ come una spugna dopo aver lavato i piatti sporchi. E tu eri il piatto sporco, ed io la tua spugna. Ho assorbito il tuo nero dandoti indietro bianco senza mai chiederti nulla in cambio. Ho accolto il tuo amore sempre più sbriciolato pensando che fossi io il problema, pensando che fossi io a non essere abbastanza.

La verità, Amore, è che non è mai stato amore vero. Pensavamo di essere due formine complementari come in quei giochi per bambini, solo che io sono cerchio e tu un cubo pieno di spigoli. Sei entrato nella mia vita come un caterpillar nato per distruggere ed io ora esco dalla tua in punta di piedi, anzi di penna. Non siamo fatti per stare insieme ma ciò non ti rende peggiore, ma ciò non mi rende migliore. È semplicemente la verità, Amore. Io ho bisogno di sorrisi, di un tè caldo la sera e una carezza prima di dormire. Ho bisogno del mare sulle ciglia d’estate, di sudare scalando le montagne. Ho bisogno di sapere che se voglio partire, la persona al mio fianco è disposta a seguirmi. E vedi bene che adesso ho il coraggio di essere egoista, di non pensare innanzitutto ai tuoi problemi. Perché non mi riguardano. Perché ho la nausea delle tue inutili lamentele su come il lavoro ti distrugga, su come la tua vita non abbia senso.

Reagisci per Dio, alzati. A volte ho come l’impressione che tu ami crogiolarti nelle tue piccole disgrazie, nei tuoi drammi da soap opera. Ma io cerco il Sole, e tu sei nube che mi porta pioggia. Aveva ragione il nostro amato Battiato, arrivederci amore ciao le nubi sono già più in là. Ti prego non cercarmi, nemmeno io sono ancora riuscita a trovarmi. Sii semplicemente forte una volta nella vita, te ne prego. Abbi, da domani e per sempre, il coraggio di essere sfacciatamente felice come io, a tuo dire, so essere.

C’è un marron glacé nel frigo,

il nettare degli dei.

Tua,

Lady M.

Autoerotismo cerebrale

Oggi, dopo lunghe e contorte riflessioni, ho deciso di parlarvi di un argomento assai delicato e vergognoso: l’autoerotismo cerebrale. Volgarmente definito come “sega mentale” , esso consiste in un processo del nostro pensiero che, seguendo le misteriose leggi di aggrovigliamento delle cuffie del walkman (e mi auto do dieci punti radical chic per non aver detto mp3 o ipod) , porta la nostra mente a risultare più impazzita di una maionese troppo sbattuta. Un classico esempio di autoerotismo cerebrale si ha quando,  davanti ad un non-saluto, il nostro cervello scarta di default l’ipotesi “non mi ha vista, in fondo siamo al concerto degli iron maiden” iniziando immediatamente la stesura di un giallo degno di Agatha Crhistie. Si parte con un banale “ecco mi odia da quando una volta non risi ad una sua battuta” e, passando per “penserà che sono un’idiota per come sono vestita o per il brufolo sul naso” , si giungerà al fantasioso “mi odia ancora perché alle elementari barrai la famosa crocetta del no. È che non pensavo volesse stare davvero con me, pensavo aspettasse solo di prendermi in giro con i suoi amichetti. Ma io lo amo, credo. Avremmo potuto avere sei figli e dodici labrador se non avessi detto no. O forse voleva davvero solo prendermi in giro. Bastardo”.

Pare dunque evidente che il lato erotico della questione prenda a questo punto dei risvolti più bondage del previsto. Potremmo parlare di sadomaso ma ritengo sia ormai troppo fuori moda. Tornando al bondage, si potrebbe paragonare questo autoerotismo ad una forma di impiccagione mentale con, tuttavia, poco godimento. Il soggetto infatti, terminata la pratica di tortura, non sembra mostrare segni di piacere ma, nonostante ciò, persevera nell’autoerotismo.

Gli individui più estremisti sembra amino fare sessioni di gruppo di seghe mentali in cui questa pratica raggiunge uno dei picchi massimi di perversione. Non è inusuale, tuttavia, l’autoerotismo cerebrale che si alimenta a partire da sé stesso. Quest’ultima frase necessita senza dubbio di un’esemplificazione non essendo d’immediata comprensibilità. Ecco dunque il più frequente: “secondo te mi faccio le seghe mentali? No perché dicono che io mi faccia le seghe mentali ma a me non sembra.. voglio dire mi pongo domande a volte un po’ astruse sul perché e sul per come ma non credo di farmi le seghe mentali.. sii sincero, trovi che mi faccia le seghe mentali? No perché se così fosse sarebbe un bel guaio. Anche il mio cane ha detto che mi faccio le seghe mentali ma io non trovo sia vero. Dici che me le faccio?”.

Dopo anni di ricerca e svariati milioni di soggetti analizzati, l’università di Harvard sembra aver trovato l’unico vero rimedio a questa forma di perversione che, se non curata, porta ad una lenta autodistruzione dell’individuo. Trattasi di iniezioni di autostima pura al 100% da fare direttamente nel cuore. Nel foglietto illustrativo si spiegano le modalità di somministrazione: iniettabile solo durante crisi di autoerotismo, evitare il sovraddosaggio per non rischiare l’effetto pallone gonfiato.

Prossimamente nella grande distribuzione farà il suo ingresso anche la pastiglia “crèdice”, per uso quotidiano e con circa il 3% di autostima pura. Risulta, da una ricerca di mercato, che l’unico ostacolo a questo farmaco salva vita sia legato ai problemi di diagnosi dell’autoerotismo cerebrale. I soggetti colpiti, infatti, mostrano tutti i sintomi tipici della negazione quando la patologia viene accertata: “io non voglio prendere quelle pastiglie. Io non mi faccio le seghe mentali. E poi se le prendessi tutti penserebbero che me le faccio e mi riterrebbero uno stupido e poi io non ci metto più piede in giro. È tutta colpa del medico, l’ho sempre detto che gli stavo antipatico, hai notato come muove il sopracciglio destro quando mi visita? Proprio non sopporta la mia presenza. Io non prendo niente, io sono sano”.

Evita di diventare anche tu un maniaco dell’autoerotismo cerebrale, riconoscilo e fatti aiutare.

Pubblicità sociale finanziata dall’associazione femminile “più pene per un mondo senza pene”.

Imparità dei sessi

Io non l’ho mai voluta la parità dei sessi. Non mi è mai andata giù così come non posso ingoiare un mattone: è semplicemente impossibile. A meno che non sia un mattone di cioccolato, in quel caso sarebbe una figata. È che trovo che questa favola della parità dei sessi sia una cavolata. Come pretendere che il vino rosso sia identico a quello bianco: certo entrambi sono vini, ma c’è un abisso. E non è che ora parte il pippone femminista tipo “cioè noi donne siamo molto più fiche di quei cavernicoli muniti di pene”, no. È solo una constatazione oggettiva: io non voglio dei pettorali alla Schwarzenegger  né dei gioielli alla Rocco. Non solleverò mai cento chili di panca piana, non farò mai pipì in piedi. E vale il contrario: un uomo non soffrirà mai di sindrome premestruale (salvo rari casi), non capirà mai le gioie che ti regala un mascara waterproof davanti ad un film strappalacrime, penserà sempre che gli assorbenti possano tranquillamente essere chiamati pannolini che “ma si dai è la stessa cosa”. Voglio vedere la tua fidanzata a girare con un pampers 16-18 mesi bello mio. È che siamo diversi. Io piango quando Jack muore in Titanic, lui piange se Pirlo sbaglia una punizione. Io sono attenta ai mobili di design, lui che ci sia sempre della birra fresca in frigo.

Ma chi l’ha detto che il femminismo è la parità dei sessi? Quanto è stupido voler glorificare la femmina cercando di renderla quello che non è? Avete mai sentito un uomo lamentarsi della mercificazione del corpo maschile per i California dream men o per quel figone della pubblicità di D&G? Non credo. Perché la dignità della donna dovrebbe essere minata da femmine che decidono di usare il proprio corpo come strumento di lavoro? È il loro di corpo mica il mio. Non è forse vero che si vale in quanto individui?  Se io preparo la cena è perché mi piace coccolare il mio uomo, non perché sento il peso della società che mi obbliga implicitamente con convenzioni sociali a stare dietro ai fornelli. Se mi faccio offrire la cena è perché al mio uomo piace darmi sicurezza, anche economica. Ma non mi sento minacciata da un conto che non ho pagato o da una cena di troppo che ho cucinato.  Perché io credo che il femminismo sia indipendenza e libertà. Indipendenza da quattro frustrate che pensano di dirmi come devo condurre la mia vita per essere una vera donna con le palle (ossimoro di prima qualità), libertà di fare ciò che voglio di me stessa e del mio corpo perché, se è vero che mercificarlo è una mancanza di rispetto, lo è al massimo nei miei confronti e non in quelli dell’universo femminile. Se una donna la dà per ottenere un lavoro, mi spiace per lei che non crede nelle sue capacità ma la mia, di dignità e di vagina, resta intatta. Se una di professione sculetta, penso semplicemente che non è un mestiere che farei. Se un uomo mi offre da bere, gli sorrido e lo ringrazio ma non mi sento insultata perché forse il tizio può pensare che io non abbia soldi per potermi permettere un drink e che dunque lui ha il potere o che mi tiene in pugno come io tengo il mio gin tonic, no. È solo un drink, sono solo cinque euro, sono solo cazzate. E semplicemente se uno mi chiede favori sessuali rifiuto e probabilmente lo insulto anche, ma non per l’idea che lui ha delle donne, semplicemente per l’idea erronea che ha di me.  Io sta storia del “volete la parità dei sessi poi però vi fate pagare anche il caffè” la rimando al mittente. Ma chi la vuole sta parità? Non è che solo perché sei tirchio allora devi buttarci in mezzo questa sociologia da banco del pesce.  Che poi io ho sempre offerto tanto quanto un uomo,  lo sa bene il mio bancomat.  Sai cosa ti risponderei?  Credi nella parità dei sessi? Benissimo, da domani amore proviamo lo strap-on poi mi dici.

Io sono donna e fiera di esserlo, ma mi piace esaltare la mia femminilità e le mie capacità intellettuali, non sembrare un uomo per dimostrare chissà poi cosa. Dammi un lavoro se me lo merito, sia che voglia diventare una soubrette perché ho un culo che parla, sia che voglia fare l’amministratrice delegata perché sono il top. Pagami la cena se hai piacere, cucinami una fiorentina se ne sei capace. E non preoccuparti tesoro, se mi offendo lo faccio come individuo, non come esponente del genere femminile. Perché io il rosa l’ho sempre odiato, e le uniche quote che voglio sono quelle che mi sono comprata coi soldi del mio lavoro, qualunque esso sia.

Io sono poligamo. ( parte I )

Gentili lettrici, buongiorno.

Ho deciso di scrivere una lettera aperta a questo giornale perché io mi sono stufato, ne ho abbastanza. Per questioni di privacy inventerò luoghi e nomi, tuttavia i fatti e le sensazioni sono verititeri.

Dunque mi chiamo Guido, ho trentacinque anni e sono sposato da sette. Ho un lavoro che mi permettere di fare la bella vita, un bel cane in giardino e assolutamente nessun figlio. Qual è il mio problema vi starete chiedendo. Ecco il fatto è che io credo di aver troppo amore da dare. Sia chiaro mia moglie è una donna fantastica, cucina da dio, è simpatica, solare, forse ha qualche chilo di troppo ma chi di noi è perfetto?  Io no di sicuro. Il punto è che io non mi sento soddisfatto ad amare una sola donna, proprio non mi basta. Sarebbe come mettere il motore di una Ferrari sotto un Ciao, vedete bene che è sprecato oltre che pericoloso. E dunque io sono una persona estremamente generosa, dono il mio amore a molte donne. Credo che la mia unica colpa sia di essere nato a Monza e non in un paese a religione musulmana. Cosa ne posso se la poligamia mi scorre nelle vene più dei globuli rossi? Non faccio mancare nulla a nessuna delle mie donne, solo che di una proprio non riesco ad accontentarmi. E vedete io ne ho abbastanza di essere additato da quei catto-moralisti come “lo stronzo”, “il Don Giovanni”, “lo sciupafemmine”. È così difficile capire che il mio è puro altruismo? È così difficile capire che il mio è amore verso le donne? Perché vedete io sono stufo di sentirmi dire dalle mie amanti che sono un egoista, che penso solo a me stesso, che illudo tutte e poi resto sempre con mia moglie. Illudo di che? È forse illudere provare amore? Il mio ti amo è ben tangibile, basta vedere gli scontrini delle mie cene. Solo che ecco perché dovrei rinunciare a qualcosa? Sono in perfetto equilibrio con me stesso, mia moglie, le mie donne. Fine. Poi mica chiedo grandi sacrifici. Ho poche regole da far rispettare. Il lunedì sono i panzerotti a casa, il martedì vedo Clara per cena poi dritti a casa sua, il mercoledì calcetto con gli amici, il giovedì e venerdì a turno tra Marta e Sofia. Ovviamente i weekend sono a rotazione. Per le telefonate e i messaggini nessun problema in orario di lavoro ma la sera ecco, meglio evitare. Ora dico vedete bene che non c’è nulla di male, che tutto torna. Io non trovo alcun motivo logico per dover rinunciare anche ad una sola delle mie donne, delle mie abitudini. Perché vedete le femmine per quanto io le ami, va detto che non brillano per intelligenza. Non sono né particolarmente bello, né particolarmente simpatico. Eppure tutte s’innamorano, tutte s’illudono di diventare il motivo del mio divorzio. Ma io lo dico fin dall’inizio che con mia moglie sto bene, che sono poligamo per natura. E a loro va bene, fanno l’amore un paio di mesi, tutte dolci, carine, sensuali. Poi iniziano a lamentarsi, a dirmi “io ti aspetto ma devi scegliere”, “o me o lei”, “lasciala o con me hai chiuso”. E sono sette anni che mi minacciano. Voi donne che state leggendo, voi care signore non avete credibilità. Se un rapinatore mi chiede dei soldi con una pistola ad acqua, io gli rido in faccia. Poi ragazze mie io vi amo, vi amo davvero. Quante volte mi sveglio al mattino e vorrei una di voi al mio fianco, quante volte vi penso durante la giornata… ma voi non vi accontentate, mai. Pretendete troppo e non avete la forza di ottenerlo. Io sto bene così, ho imparato la tecnica. Basta rispondere “certo amore, ma sai è difficile, stiamo insieme da tanto, ci vuole tempo” e subito diventano come cagnolini che ti chiedono una carezza. Perché in fondo volete solo essere rassicurate da dolci parole, quasi aveste paura del vero grande passo. Poi mi dite che vi sentite in panchina, messe da parte, le numero due. Ma che scusa è? Lo sapevate fin dal primo istante, io la fede l’ho sempre portata. Come ordinare un gelato al cioccolato e poi stupirsi del fatto che, effettivamente, sa di cioccolato. Vedete bene che non ha alcun senso. Dunque, concludendo, se non riuscite a rispettare le mie regole, se non riuscite ad accontentarvi del mio sincero e devoto amore, andatevene. Ma senza fare minacce, scenate, serenate patetiche. Andatevene con classe, dicendo “io ne ho abbastanza, grazie di tutto è stato bello ma ora voglio qualcosa che tu non potrai mai darmi”, siate donne con le palle, siate le amanti innanzitutto di voi stesse. Questa lettera dunque, amori miei, è per dirvi che in fondo io sono solo la manifestazione della vostra insicurezza e ne sono ben consapevole. Vedete? Io mi accontento. So che il vostro non è sincero amore ma solo il tentativo di diventare la numero uno, eppure mica mi lamento, mica vi faccio patetiche scenate isteriche. Forse, in fondo, la sfortuna è la mia che dono il mio cuore e da voi non ricevo altro che complessi d’inferiorità. Amatemi, se potete. Amatevi, perché dovete.

 

Ha visto le mie chiavi?

Ufficio oggetti smarriti ? Buongiorno, vi chiamo per delle chiavi. Guardi non saprei dirle bene dove nè quando le ho perse, sono piccole piccole quasi invisibili ad occhio nudo. Cosa aprono ? Il mio giardino. È bellissimo, sa? Pieno di rose, tulipani, fiori di campo e uno stupendo tappeto verde così verde che non saprei descriverlo meglio. È solo che, vede, avevo paura che qualcuno mi rovinasse quei petali così delicati e ho fatto costruire un bel muro di cemento. Che poi di bello non ha nulla, è una colata grigio chiaro, un po’ un pugno in un occhio lo riconosco. Mi piaceva così tanto quel giardino che non potevo condividerlo, le è mai successo di diventare tremendamente possessivo riguardo le cose cui è più legato? C’era così tanta bellezza che la volevo tutta per me, “che egoista!” starà pensando e ne ha ben motivo, me lo dico da sola. Comunque tornando a noi un giorno sono uscita e ho chiuso a chiave la porticina d’ingresso. Non mi sono allontanata di molto, non credo. O forse non ricordo, di rado penso prima di agire. Gliela faccio breve, quando mi sono stancata di stare fuori sono tornata indietro ed ero davvero felice, volevo organizzare una festa nel mio giardino con tutte le persone con cui avevo finalmente deciso di condividere quel mio piccolo paradiso, quella bellezza che a ben pensarci magari era bella solo per me. Mica sono oggettive le emozioni, le sensazioni, mica posso imporre agli altri la mia visione delle cose come se fossi custode di verità assolute. Ho già evidenti difficoltà a badare al mio giardino, pensi che disastri farei con la Verità.

Bè in sostanza sono arrivata davanti alla porta e nelle tasche dei miei pantaloni leggeri non c’era alcuna traccia delle chiavi. Ho svuotato la borsa, ho rifatto la strada tre volte controllando ogni centimetro quadrato, ho alzato le foglie, ho chiesto ai passanti ma niente, nessuno aveva trovato un bel nulla. Rubate? No non credo, chi sarebbe così cattivo da prendermi un oggetto che non ha valore alcuno se non personale? Mica possiedo oro, diamanti o soldi, che soddisfazione può dare prendere un paio di tulipani? Io sono convinta di averle perse ed è per questo che l’ho contattata. Certo che ho provato a forzare la serratura e a colpire violentemente la porta, solo che davvero non c’è nulla da fare. Non si apre. Senta può farmi una cortesia? Non è che potrebbe controllare meglio? Magari sono in un angolino polveroso del vostro ufficio. Ah se non è nell’inventario è impossibile? Certo, certo, capisco. L’ultimo posto in cui le cercherei? Che senso ha questa domanda? L’ultimo posto in cui le cercherei è lo stesso in cui le troverei. Dopo sarebbe stupido continuare a cercare qualcosa che già ho, non crede? Va bene ho capito è un modo di dire, è che non lo faccio di proposito ma spesso mi attacco troppo alle parole. Dovrei smettere di cercarle? Si ma mica sono un mago che faccio materializzare gli oggetti, sono una fedelissima del “chi cerca trova” dopotutto. Ah lei dice una cosa tipo? Si, si ho presente. Non ci avevo mai pensato ma può essere. Ovviamente. E poi oplà? Interessante. Quindi scusi ricapitolando lei mi sta dicendo che dovrei rilassarmi un attimo, sgomberare un po’ i pensieri e così secondo lei dovrebbe essere più facile che mi torni in mente dove sono quelle maledette chiavi? Poi mi spiega come fa a notare lo stress solo dal suono della mia voce? Che cos’è lei un indovino o un impiegato dell’ufficio oggetti smarriti? Ah è abituato, dunque succede spesso? Ma pensi un po’, ero convinta di essere l’unica, di essere unica e invece ogni giorno la chiamano per cose simili. Incredibile quanto in fondo siamo tutti uguali a modo nostro. Va bene, allora guardi la ringrazio molto, nel caso dovessi trovare queste chiavi lei ovviamente si consideri invitato alla mia festa.   

Ego tra le righe

Ho sentito dire che il successo di un racconto dipende da quanto il lettore riesce ad immedesimarcisi. Una cosa del tipo che se ora scrivessi la storia degli allevatori di pecore del sud est della Bolivia avrebbe molto meno seguito di un grande, grandissimo amore finito dopo appena quindici giorni. Ora non dico che siamo tutti disinteressati di fronte ai problemi e al freddo che devono patire i pecorai del monte Sajama (sì ho dato una sbirciatina su wikipedia), solo che forse non ci vediamo nulla di nostro in un uomo che produce ottimi formaggi isolato dal resto dell’umanità. Non ci risolve i problemi esistenziali apprendere come si munge una pecora. Ma chi l’ha detto che i libri debbano darci delle soluzioni? Come la mettiamo poi con quella faccenda dell’arte come fuga anche solo temporanea dalla realtà? È difficile evadere dal quotidiano se quello che si ricerca tra le pagine di un libro o tra le battute di un film sono le nostre emozioni vissute e raccontate da altri. Forse funziona come nelle foto di gruppo quando una volta che hai trovato il tuo faccione sorridente nell’angolo in basso a sinistra vicino al cespuglio e dietro quel tizio di due metri, bè tutto il resto dell’immagine svanisce e chi se ne frega di quello vestito da sailor moon in primo piano, tu ti sei trovato e ‘ntu culo a tutti gli altri. Cioè tu inizi un libro/racconto/film/quello che ti pare e rivedi in ogni personaggio tua madre/la vicina di casa/ il fidanzato figo della vicina di casa/ quella stronza dell’università/ il tuo pesce rosso e a quel punto, solo a quel punto, ti godi la storia. O forse no. Forse schiacci play/giri la prima pagina e fantastichi su come faresti tu se fossi nel protagonista, antagonista, amante del protagonista, barboncino della panettiera di fiducia della sorella del protagonista. Il punto è che in ogni caso se non ci sei Tu in qualsiasi modo, quella storia non ti prenderà mai. È un po’ triste se ci pensi, no? È un ragionamento veramente egocentrico. Cioè anche con la Divina Commedia ora scagli la prima pietra chi non ha mai fatto il giochino di “in che girone sarei”. Fa strano realizzare che anche davanti ad un capolavoro simile il nostro pensiero sia rivolto a noi stessi. E ovviamente mi ci metto dentro pure io, che mica son diversa dalla gente che mi sta accanto in metro, da te che stai affaticando le pupille su queste righe maledicendo il momento in cui hai iniziato a leggere. Perchè ad ogni costo noi dobbiamo sempre e comunque essere protagonisti o quantomeno partecipare? Perchè risulta impossibile, a meno che non si decida di leggere un saggio su come si filava la lana nel medioevo, sedersi in poltrona e godersi il libro da fuori, da osservatore esterno che non prende parte in alcun modo alla storia? Non siamo capaci di stare fermi o per il nostro ego non esiste forza centrifuga?

Tuttavia è vero, hai ragione, è sbagliato generalizzare e non sempre due più due fa quattro, non sempre riusciamo a penetrare tra le righe e trasformarci nel protagonista. Io, ad esempio, quando leggo le istruzioni per il montaggio del comodino ikea proprio non ci riesco ad immedesimarmi. Adesso tu penserai “caspita è vero, anche a me è capitata la stessa cosa con gli armadi del corridoio” e posso a questo punto ben sperare che non ti sia dispiaciuto leggerti tutta questa gigantesca pippa mentale perchè, in fondo (letteralmente in fondo), ci sei anche un po’ tu.