Oltre la tendina

Da quando ti ho incontrato non è cambiata molto la mia vita.

Non ho bisogno di te, l’amore non è un bisogno, respirare lo è ma sono ragionevolmente sicura che lo facessi anche prima d’incontrarti.  Certo, quando ti vedo il respiro si affanna impercettibilmente ma succede anche quando vado a nuotare. Mi si dilatano le pupille quando ti ho davanti ma non temere, accade anche se guardo le vetrine delle pasticcerie del centro. Mi capita di sentire le farfalle nello stomaco, somigliano a crampi da fame: sono gli effetti della dieta per la prova costume. Rido più spesso, è che bevo più vino. Le persone mi dicono che ho lo sguardo più luminoso, sono le lenti a contatto che riflettono la luce. Mi sento bella anche se sono in tuta e coi capelli raccolti, c’è da dire che mi sono iscritta a pilates e mi è venuto proprio un bel culo.

Vedi, da quando ti ho incontrato la mia vita non è cambiata molto. Certo se ti stringo forte sento come una scossa che mi percorre l’anima ma è che mi dimentico sempre di togliere la vibrazione dal telefono. Che poi non è che non ti conoscessi prima d’incontrarti ma vedi bene che c’è differenza tra “ciao come stai?” e “ciao, ti amo”, non che abbia smesso di chiederti come stai, è solo che adesso in quel “come stai” ci sono anch’io.

Abbino slip e reggiseno, è che proprio non riesco a togliermi dalla testa che se dovesse succedermi qualcosa starebbe male finire in pronto soccorso con le mutandone con gli orsacchiotti. Faccio la ceretta anche in pieno inverno, può essere che con questo clima pazzo il 13 gennaio scoppi la primavera. Guardo la Champions League aspettando il tuo commento tecnico, non che tu ne capisca molto di calcio ma mi piace vedere come si muovono le tue labbra quando parli con passione.

Mi capita di pensare a dei viaggi e mi capita di pensare di farli con te, ogni solitario che si rispetti ha un compagno di avventure. Un po’ come se io e te avessimo quattro gambe, quattro braccia, due teste e un tronco solo. Un mutante orribile a vedersi, certo, ma in una favola che mi leggevano da bambina si diceva che l’essenziale è invisibile agli occhi. E in effetti io ti guardo meglio al buio. Non ho molti soldi in banca ma appena posso ti compro un regalo solo per vedere se i tuoi denti sono sempre bianchi quando sorridi. E lo so che non dovevo ma mi piace infrangere le regole fin da quando ero bambina e bambina, con te, un po’ mi ci sento. Passo più tempo al supermercato per cercare qualcosa che possa piacerti, hai delle fisse notevoli sul cibo.

La verità è che ho meno paura da quando ti ho incontrato. L’altra sera, per esempio, sono scesa in cantina a prendere due birre ed ero sola, non era mai successo. Ho girato la chiave senza pensare alle centinaia di maniaci che da anni si nascondono là sotto, sono entrata decisa e li ho visti uscire uno ad uno, sarà che più aumentano le zampe di gallina più la paura diventa razionale, una ragioniera acchiappa fantasmi con quelle visiere verdi e gli occhiali tondi.

Da quando ti ho incontrato la mia vita non è cambiata molto, io ero sul mio solito aereo nel mio solito posto in economy che non è male,  il sedile non è larghissimo e il cibo ha quello strano retrogusto di plastica ma dal finestrino si vedono le nuvole. Mentre finivo di sistemare il mio bagaglio è arrivata un’assistente di volo dicendomi che c’era un posto libero in prima classe, che se volevo potevo accomodarmi oltre la tendina. È strano perché mi ero sempre chiesta cosa ci fosse oltre la tendina, due mondi separati da un paio di metri di stoffa scura, da un muro di velluto. La fissavo per ore senza mai trovare il coraggio di scostarla, di sbirciare. Temevo che mi avrebbero cacciata in malo modo e invece adesso quasi non mi sono accorta di aver varcato quella soglia, l’ho calpestata come un qualsiasi centimetro di pavimento, quasi come se la paura non avesse fatto in tempo a fermarmi che già ero lontana.

Così sono sullo stesso aereo ma ho un sedile più comodo, i funghi sanno finalmente di funghi e vedo le stesse nuvole ma ho un finestrino tutto per me. Non ho cambiato destinazione, semplicemente ci arriverò sorseggiando champagne oltre la tendina.

Corso di cucina per amanti inesperti.

Caro Amore,

ti avevo preparato una torta per stasera, una torta con mele e cannella come piace tanto a te.

Mi sentivo così felice mentre la vedevo lievitare, mi sentivo così felice mentre quel caldo profumo si diffondeva nell’aria come musica in un giorno silenzioso.

Era bellissima con quella crosticina così fragile, mi sono persa a guardarla.

Sei la mia primavera, Amore. Averti accanto mi fa venir voglia di essere migliore, di fiorire da un piccolo ramo secco in cui il sapiente giardiniere ha creduto, in cui tu hai creduto sin dal primo istante.

Ti chiederai dove avrò nascosto la torta di mele, avrai alzato velocemente lo sguardo per cercarla.

Non la troverai, l’ho buttata.

Sapeva di copertone con un pizzico di cannella. Ci ho messo così tanto amore nel prepararla che mi è venuto da piangere quando l’ho assaggiata.

Forse l’amore da solo non basta, forse ci vogliono altri ingredienti. Eppure ho seguito la ricetta passo passo, farina, uova, latte, zucchero e lievito. C’era tutto. Anche le mele e la cannella. Setacciare, mescolare, infornare. Forse ho sbagliato la cottura, forse sbagliamo senza rendercene conto.

Ma come fai tu a cucinare così bene, ma come fai tu ad amare così bene? Hai frequentato dei corsi, chi è il tuo maestro? Mi hai insegnato così tante cose che avrei voluto dimostrarti di essere all’altezza, alla tua altezza. Hai rotto i miei muri in punta di piedi ed io invece ho rotto i vasi del salotto mentre urlavo contro me stessa. Mi hai abbracciata mentre tremavo in un angolo e non ho saputo far altro che spingerti lontano. Ma tu sei tornato e mi hai tolto quell’odore selvatico che odiavo così tanto da averlo fatto mio e adesso profumo di torta al cioccolato.

A volte mi chiedo come tu faccia ad amarmi, come tu possa vedere il Sole oltre le mie spine. Semplicemente lo fai. E vedi forse è proprio questo, forse è che mentre setacciavo la farina mi sono cadute alcune spine velenose, non hanno più motivo di proteggermi, non ho motivo di proteggermi da te. E forse sono quelle spine a rovinare le torte, a rovinare l’amore. Ma ho deciso che non voglio compatirmi, voglio capirmi insieme a te. Così ho buttato la torta, l’ho buttata per strada e ho aperto le finestre per non lasciare nemmeno un’ombra di quell’odore amaro.

Sono uscita a ricomprare la farina, il latte, le uova e la cannella. Mettiti il grembiule Amore, fammi un corso di cucina per amanti inesperti.

Il mostro di Loch Ness

Stamattina sono uscita di casa ed ero in ritardo. Come al solito, penserai.

In realtà non sono proprio uscita di casa, è più corretto dire che se non fosse stato per l’impresa di pulizie che lascia sempre il portone aperto mi ci sarei spalmata su quel portone. Magari mi sarebbe venuto un bel nasino alla francese.

Ho messo un piede in strada e mi sono bloccata, di colpo. Credo di aver sorriso per una frazione di secondo. C’era elettricità nell’aria, non ho mai capito bene cosa significhi ma rende l’idea, non trovi? C’era quell’odore di ghiaccio, di neve.

Mi sei venuta in mente tu.

Stava certamente nevicando sui nostri alberi, sul nostro tetto e su quei prati che diventavano più verdi quando noi ridevamo.

Eravamo come sorelle, ti lasciavo finire sempre la mia cioccolata calda. Non l’ho mai più fatto con nessuno. Mi tenevi la mano in seggiovia, ti passavo i compiti di matematica in mezzo ai fazzoletti. Ricordi quando la maestra ci aveva scoperte?  Ti eri soffiata il naso e con l’inchiostro ti eri tatuata per sbaglio un bel “=2” sulla guancia destra.

La mia copertina ha ancora il tuo profumo se chiudo gli occhi. Ci siamo sempre dette che l’amicizia è più forte dell’amore, che la nostra amicizia era più forte del mostro di Loch Ness.

Poi siamo cresciute. Tu in quell’università, io in quell’altra. Tu con i tuoi nuovi amici, io con i miei. È stato come mangiare un cucchiaino di Nutella al giorno e poi accorgersi una domenica mattina che il barattolo è vuoto e i supermercati sono chiusi.

Dovevamo prendere un caffè il sabato, ricordi? Dovevamo prendere un caffè e io non ti ho chiamata. E tu non mi hai chiamata. Non c’è nulla di male nel dimenticarsi le cose, siamo sempre state distratte. Ma ci sentivamo colpevoli, ho pensato che se ti avessi chiesto scusa tu avresti pensato che ormai non m’importava più di te, hai pensato che se mi avessi chiesto scusa io avrei pensato che ormai non t’importava più di me. E in fondo, forse, un po’ era così.

È stata la vergogna di quella svista ad ucciderci. È stata la vergogna travestita da paura travestita da senso di colpa. Roba che ad Halloween avremmo fatto un figurone.

E le nostre vite sono andate avanti. Tutto va avanti, nonostante tutto. L’ho scoperto quando è morto il mio pesce rosso, me lo dicesti tu. Un giorno semplicemente ti svegli e il tuo presente devi chiamarlo passato. Un giorno mi sono svegliata e non ti ho più chiamata.

Ho saputo che l’anno prossimo ti sposerai, ho saputo che m’inviterai. Mi metterò in fondo alla chiesa e piangerò due volte: la prima per la tua felicità, la seconda perché non sarò la tua testimone come avevamo giurato sulle nostre barbie. Sarà strano vederti vestita da cerimonia e non aver scelto l’abito con te, sarà strano non sentirti piangere mentre urli che sei grassa. Sarà strano non toglierti la nutella dalle mani dicendoti che di sicuro non aiuta. O forse non la mangi più, forse sei diventata una fedele del biologico e l’olio di palma lo usi solo per sporcare le pellicce delle signore Bene. La cosa che mi ferirà di più sarà dover stringere la mano a tuo marito, scoprire il suo nome quando ormai avrà già la fede al dito, sentirmi rispondere “ho sentito parlare di te, eravate così amiche”. Sarà un po’ come morire, mi andrà in gangrena il mignolo.

Chissà se gli hai mai dato dello stronzo, se l’hai tradito e quando ti ha detto “ti amo” la prima volta. Chissà dove ti porta a cena, se è bravo a letto e se quando ti guarda nuda tu ti senti bella. Quando ti ha chiesto di sposarti? Vorrei sapere che mobili hai scelto, non dirmi che ancora adori lo stile provenzale. Ti hanno mai bocciata all’università? E tuo padre col tempo è diventato più comprensivo?

Avrei voluto chiamarti una mattina di Marzo. Avevo già composto il tuo numero. È solo che non l’ho fatto. Se fossi tornata dal nulla ci sarebbe voluto del tempo per ritrovare il ritmo delle nostre risate, dei nostri silenzi, delle nostre parole. Il tempo di un caffè, forse. Poi mi sarei sentita costretta a richiamarti per altri dieci caffè perché non esiste la botta e via dei caffè tra amiche, o è un caffè serio o nulla. Ma lo sai, o forse non lo sai, temo le storie serie più del mostro di Loch Ness. Sono per gli inizi molto cauti, i famosi piedi di piombo ed invece con te avrei dovuto fare l’equivalente amichevole di una proposta di matrimonio. Non salti fuori dopo dieci anni per cinque minuti di bevanda amara, è scorretto. E così ho continuato a dormire sperando che quel piccolo angolino vuoto non mi avrebbe più fatta piangere.

E invece mi capita. Nelle mattine come queste, quando c’è aria di neve, io ti penso e quell’elettricità, ne sono sicura, è il tuo pensiero di rimando.

È un po’ come se vivessimo in due mondi paralleli lontanissimi tra loro, due mondi paralleli che si sono incrociati per così tanto tempo che nel mio mondo, nelle mie parole, ci sei tu. Se guardi bene puoi specchiarti. Se t’incontrassi adesso sarei muta, mi sono successe così tante cose in questi ultimi dieci anni che per riassumerle non saprei trovare nulla meglio del silenzio. Se t’incontrassi adesso te lo offrirei quel benedetto caffè, la casualità è senza impegno.

Sai, il mostro di Loch Ness secondo me esiste, dimmi tu se siamo più forti.

La goccia che non voleva essere oceano

Mi presento, sono Gianna, goccia d’acqua professionista da circa mille anni.

Lavoro come cascata, neve, di recente ho fatto anche l’acquazzone e l’onda anomala. La verità è che sogno di vivere per sempre in una nuvola.

Voi che leggete, voi che avete dei miei colleghi nello stomaco, vi siete mai chiesti quanto sia faticoso il mio lavoro?  Voi a cui io dono la vita, vi siete mai chiesti come sia la mia di vita?

Inizio con un freddo terribile a formare ghiacciai che altro che stare rigida tutto il tempo, non posso nemmeno rilassarmi un secondo. Poi qualcuno decide che è il momento di sciogliersi, di aprire le danze, ed ecco che inizio ad andare giù un po’ alla volta e sbatto tra le rocce,  ci sono dei cretini che mi tirano remi in faccia giusto per divertirsi. Allora io m’arrabbio e vi faccio rovesciare cari canoisti, beccatevi sta botta di freddo. Poi quando penso di avere già abbastanza lividi e che mi meriterei un caldo fiume lento e pacioso, ecco che arriva la cascata.

Io odio le cascate.

Precipiti sperando che il fondo sia vicinissimo ed invece sbatti con violenza contro altre rocce, conti fino a dieci ma il fondo ancora non si vede e alla fine finisci con una violenza inaudita sulle teste dei tuoi fratelli e ti scusi ma anche loro sanno che non è colpa loro, che non è colpa tua, che è semplicemente la vita. E sai che adesso tocca a te beccarti in testa gli altri, che magari ci sono fratelli esaltati che si divertono a fare tuffi a bomba non curanti di chi gli sta sotto, fratelli a cui auguri di diventare acqua del cesso di night di periferia, scarichi di imprese chimiche.

Che poi se ti va bene riesci a diventare fiume, che poi se ti va male diventi diga e lì son dolori, lì ci vanno solo gli eroi e i pazzi, che non è che ci sia troppa differenza tra loro.

Se diventi fiume invece sai già che vivrai sporco, sai già che ci saranno altri canottieri a tirarti remate in faccia, battelli turistici pronti a ribaltarti come un calzino e a farti scoprire quanta melma c’è sul fondo. Che sarà pieno di nutrie pronte a farti la pipì addosso, che mica io assomiglio ad un pioppo brutto roditore dei miei stivali.

Finalmente la foce,  finalmente il mare e pensi di essere finalmente riuscita a conquistarti la tua libertà.

Dovete sapere che il mare non è libertà, il mare è nonnismo. In pratica sul fondo, lì dove tutto tace e tutto è tranquillo e puoi passare il resto della tua vita indisturbato, lì ci vanno solo i veterani. Io ho mille anni, sono poco più di una recluta. Sul fondo ci vanno gli anziani, quelli che dai loro racconti praticamente hanno dissetato i T-rex, hanno visto Cesare, il rinascimento, le guerre mondiali e i più fantasiosi persino Gesù Cristo. Così visto che sono esperti, visto che si credono in pensione anche se per l’acqua una pensione non c’è, loro se ne stanno placidamente sul fondo a godersi il buio, a godersi l’immobilità. Mentre noi giovani ce ne stiamo in superficie a fare le onde.

A te caro surfista, a te che stai lì con la tua tavoletta da due soldi dico, ti sei mai chiesto quanto sia noioso per me fare la tua onda? Io non ho domeniche, non ho turni, non ho riposi, io lavoro tutto il giorno tutti i giorni perché devo, perché devo cosa? Le onde sono proprio stupide, nel ruscello è vero mi prendo le rocce in faccia ma so dove sto andando e so che mi muoverò. Ma le onde sono inutili. Pensi che io mi sposti avanti e indietro? No signore, vado su e giù su e giù tutto il giorno con una nausea pazzesca, vado su e giù per vedere quattro idioti che prendono i cavalloni mentre io mi prendo le pietruzze in faccia.

Che poi io sono ancora fortunato, pensa a chi sta nelle fogne a sguazzare nella merda o a quei poveretti degli stagni soffocati da rospi che si credono principi e ninfee che se stessero solo nei quadri di Monet saremmo tutti più contenti.

Io voglio vivere in una nuvola e volare in alto, sempre più in alto, voglio essere sfiorata dalle rondini e baciata dal sole, voglio che i bambini mi indichino sorridendo e dicendo che sono bellissima.

Lasciatelo a chi si accontenta di essere una goccia nell’oceano il posto nel mare, lasciatelo agli stuntman il posto nelle cascate, lasciatelo agli eroi il lavoro nelle dighe, lasciatelo a chi non ha più voglia di lottare il lavoro nelle fogne e negli stagni puzzolenti, lasciatelo a chi non vede la luce dentro se stesso il posto negli abissi. Io voglio volare e mi aggrapperò a tutte le nuvole, fosse anche in un cielo terso, fossi anche una nuvola di una sola goccia,  mi aggrapperò anche ad una rondine pur di restare in alto a guardare il mondo, pur di volare trasportata da un vento dell’Ovest.

Lo squalo vegetariano

Ho sempre corso, tantissimo.
Non che non mi sia goduta il viaggio, non voglio mica esordire con qualche stronzata new age.
Dico solo che ho sempre corso, fin da piccolo. Ho più competizione che globuli rossi nel sangue.  Da bambino alle gare di atletica ricordo l’eccitazione totale al rumore dello sparo e una volta mi sono morso fortissimo una guancia per l’adrenalina.
Gli ultimi saranno i primi conta forse in paradiso, non di certo in pista. In pista il secondo è il primo dei perdenti, questo penso. E allora vai, una gamba dopo l’altra, un ostacolo dopo l’altro, niente può impedirmi di arrivare primo.
Ho sempre preteso molto da me stesso, forse troppo a ben pensarci. Ottima forma fisica, a scuola voti eccellenti, una vita lanciata ai mille all’ora verso un futuro che avevo già deciso, che avevo già programmato da quando avevo quattordici anni. E con il passare del tempo le mie certezze diventavano sempre più solide, sempre più concrete e palpabili.
Ma c’è un attimo prima della fine, una frazione di secondo prima della linea del traguardo, in cui tutti siamo profondamente tristi. Puoi sentirlo se ti concentri, è come se il tuo corpo rallentasse impercettibilmente perché in fondo non vuole tagliare quella linea, perché fin che corri sai dove stai andando e dove devi andare, ma dopo?
Così mi sono iscritto alla facoltà che volevo mettendo a tacere quei piccoli fastidiosi dubbi che tentavano di accarezzarmi la notte.
Così ho passato i primi anni andando come un treno, ossessionato dal ritardo. Avete presente il coniglio di Alice nel paese delle meraviglie? Ecco io ero uguale, nella mia testa continuavo ad urlarmi “è tardi è tardi è taaardi” senza mai chiedermi per cosa, esattamente, fosse tardi. In fondo non m’importava o forse mi mancava il coraggio di rispondermi.
Vivevo la mia vita come una gara di atletica: non è che puoi uscire dalla pista, non è che puoi metterti a fare i 100 metri sui gradoni delle tribune. Il percorso è già tracciato, basta che tu corra.
E sarebbe andato tutto bene, sarebbe stato molto più facile se non mi fossi, di colpo, stufato di girare sempre in tondo.
C’è un episodio che mi torna spesso in mente: un mio caro amico da piccino stava facendo una gara di nuoto, era il più forte di tutti senza dubbio alcuno. Al posto dei piedi aveva un motore da 200cv e le braccia sembravano un mulino a vento durante una tempesta.
Non ce n’era per nessuno, un piccolo squalo che però non amava mangiare i pesci, non amava vincere se non con se stesso. Il mio amico era uno squalo vegetariano. Fu così che, durante una gara, aveva dato un distacco più che notevole a tutti quegli insignificanti girini che tentavano di stargli dietro quando ad un certo punto il mio amico vide sul fondo un cerchietto. Senza pensarci s’immerse e lo raccolse per giocarci. Arrivò ultimo ma col sorriso sulle labbra, aveva trovato qualcosa che lo divertiva molto più di una vittoria. Ci fu chi rise, chi si arrabbiò, ma di sicuro nessuno notò che tra tutti quei bambini, il mio amico era stato l’unico ad aver avuto il coraggio di distaccarsi dal gruppo per scendere nella profondità degli abissi, per avventurarsi senza timore alcuno verso ciò che davvero lo attraeva.
E adesso, caro amico, io mi trovo nella tua situazione. Il traguardo è davanti a me, lo vedo ma vorrei non ci fosse, vorrei poter correre ancora per chilometri e chilometri prima di potermi fermare perché la realtà, amico mio, è che io non so se quel traguardo adesso voglio ancora tagliarlo, non so se ho voglia di correre in una pista che sembra mi s’incolli ai piedi.
Ho sempre vissuto con l’ansia del ritardo, dell’arrivare primo e adesso, adesso se guardo quella linea bianca vorrei solo fuggire lontano verso il mio cerchietto. Ma uno col cerchietto mica ci mangia a colazione.
Amico mio, fermiamo il tempo, sediamoci su questa terra rossa e raccontami, una volta per tutte, quanto è fredda l’acqua quando si scende in profondità, raccontami del coraggio di prendere un cerchietto ed avere il sorriso sulle labbra. Prendimi per mano, accompagnami al traguardo e poi portami dove vuoi, che io senza di te il coraggio non ce l’ho. 

Carlotta Marengo

In prima fila

Anche oggi salirò sul palco. I miei soliti concerti, i miei soliti timori, le mie solite cazzate.

Salirò e ti cercherò con lo sguardo. Non mi capita poi spesso sai, abituata com’ero a vederti in prima fila, esattamente al centro del mio cuore.

Ci guardavamo intensamente e per te avrei potuto fare un concerto silenzioso che tanto avresti colto ogni mia emozione, soprattutto quelle che non sono in grado di trasmettere. E invece adesso non ti trovo, sei scivolato in fondo e forse è colpa mia, ti ho tolto la targhetta “riservato” e tu, muto, sei scomparso dal mio centro.

Oggi canterò per te, suonerò per te note che tu già conosci ma che entrambi abbiamo paura di ascoltare.

Ogni mio gesto, fino al mignolo sul microfono, sarà per te. Per nessun altro all’infuori di te. E ti urlerò con lo sguardo di tornare davanti, di applaudirmi in prima fila. Ti cercherò tra la folla e so che ci sarai, fosse anche solo nel mio cuore.

Un saggio una volta mi ha detto che è ben diverso trasmettere emozioni ad un grande pubblico e parlare vis à vis. Ed ecco che confesso di non essere forte come credevo, ed ecco che realizzo che io le mie emozioni guardandoti negli occhi non so dirtele.

Ho paura non so neanche bene di cosa, ho paura che dal fondo della sala tu possa un giorno uscire ed io impazzirei perché saprei che è colpa mia. Di me che m’incendio e mi lascio trascinare dalla rabbia, di me che poi dimentico tutto senza ricordare che gli altri, spesso, non dimenticano.

E allora è come se ti proteggessi da questo fuoco che sento e per non scottarti ti tenessi lontano mentre quello che davvero voglio è portarti qui vicino al mio cuore senza ferirti. Ma ho bisogno di te per fare questo: ho bisogno che tu mi sgridi, che tu mi dica che sono una testa di cazzo facendoti guidare, però, solo dall’affetto. Ho bisogno di sentirti qui vicino e allora facciamo così, lasciami suonare qui davanti a tutti e dopo, quando il sipario sarà calato, beviamoci una birra scadente al chiaro di luna, riapriamo le ferite ma solo per disinfettarle e poi, quando tutto sarà finito, ridiamo fino a toglierci il respiro com’eravamo soliti fare, come saremo soliti fare.

Adesso che già ti sento accanto posso dirtelo: mi sei mancato.

Amore la benzina è finita.

Ti ricordi quella volta in autostrada? Ma sì, quella volta che per un soffio siamo riusciti ad arrivare al distributore di benzina,  quella volta che stavamo andando al mare e per poco non abbiamo passato la vacanza in un carro attrezzi. Ecco, è lì che ho capito che l’amore non è come un serbatoio di benzina.

Com’è che andavamo ai cento all’ora, prima al mare poi in montagna poi ovunque nel mondo l’importante era stare insieme e adesso, adesso ci chiamiamo “amore” solo per abitudine? Com’è che prima mi mancava il respiro se non ti vedevo per tre giorni e adesso mi dà fastidio se mi sfiori nel sonno?

Ti ricordi i miei occhi prima che tutto si spegnesse? Ti ricordi quella scintilla tanto forte da illuminare la stanza? Ti ricordi quando passeggiavamo per ore parlando di tutto e poi di nulla, che tanto contava solo tenersi stretti per mano?

Ma dov’è finito tutto quell’amore? L’hai nascosto tu da qualche parte? È fuggito nella notte come l’amante di una sera? Non ha lasciato nemmeno un bigliettino, nemmeno un numero o un indirizzo per rintracciarlo.

O forse il nostro amore è stato come la benzina della macchina e noi ce ne siamo accorti quando ormai la riserva era finita. E adesso siamo qui nudi e stanchi a guardarci senza neanche più la voglia di assaggiarci la pelle, senza nemmeno il coraggio di dirci che è finita, che il sipario si è chiuso, che l’amore ci ha abbandonati come cani in autostrada.  E sarebbe stupido fare un processo sulle colpe, sulle parole che ci siamo detti e su quelle che non ci siamo detti.

Ma tu senti che non abbiamo più le forze? Non percepisci il vuoto dietro questo mio sorriso stanco?  Non ti accorgi che io non so come fare a dirtelo che adesso io voglio fare altro, voglio correre in un campo di grano urlando nel vento, cadere tra le spighe dorate e ridere fino alle lacrime? Non ti accorgi che io adesso vorrei dirti tutto ma tutto quello che mi viene è un silenzio che mi assorda, che ti assorda? Ma non trovo il coraggio, se ne sarà andato insieme al nostro amore e nemmeno si è degnato di mandarmi una cartolina. Ma non trovo il coraggio e ho svuotato i cassetti senza successo, ho provato a scriverti ma non avevo l’inchiostro.

Abbiamo finito la benzina Amore ma siamo in un deserto senza distributori. E allora le nostre strade si divideranno, e allora saremo colpevoli di aver permesso, ancora una volta, che l’amore evaporasse, che la benzina finisse. E sentiremo le gambe stanche, questo sì, ma sapremo che la strada è quella giusta e troveremo nuove mani da stringere, nuove labbra da baciare, troveremo di chi innamorarci ogni giorno di più e non ogni giorno di meno.

Allora adesso guardami per l’ultima volta, sorridimi teneramente e baciami la fronte. Dimmi solo ciao, non servono altre parole. Un lungo abbraccio, le tue spalle che si allontanano oltre l’orizzonte. È come se sentissi una lacrima, o forse è evaporata anche lei.

Ci vediamo all’arrivo.

A volte ci poniamo obiettivi che sappiamo di non poter raggiungere, non nei tempi che abbiamo stabilito. A volte pensiamo di poter correre alle olimpiadi saltando l’allenamento perché tanto siamo forti e mica siamo come tutti gli altri che devono sudare per conquistare il traguardo. No, noi pretendiamo di vincere, di non allenarci e di arrivare alla fine con i capelli perfettamente in piega.  Ed il vero problema è che quando ci rendiamo conto che non si può correre la maratona senza aver mai fatto più di due passi di corsa, allora lì ci diamo la colpa del fatto che siamo inetti, che deludiamo innanzitutto noi stessi e ci vergogniamo dei nostri fallimenti.

Ma la verità è forse che il vero errore è il nostro metro di giudizio, troppo lasso sui mezzi e troppo rigido sul fine.

Non siamo supereroi né cretini.

Siamo persone normali ed è questo a farci incazzare, il fatto che non è solo pensando di voler vincere che si vince ma è buttandoci anima e corpo.  E non è facendo la vittima dopo una sconfitta che inizieremo a correre. È facendo un passo alla volta, poi due, poi tre, poi quarantadue chilometri senza mai fermarsi.

Ammettiamolo, tutti speriamo sempre e costantemente nella buona vecchia botta di culo, ma non è quello a soddisfarci fino in fondo. Non è dal caso che si origina il merito ed è solo dal merito, io credo, che si origina la gioia più sincera. Perché quando è solo fortuna ci ridi su, quando te lo sei guadagnato sorridi sereno.

No, lo giuro io non voglio dare lezioni a nessuno, parlo a me stessa ma se uso il “noi” è più facile essere sincera, scavare a fondo e non aver paura di ammettere che sì, ho sbagliato. Perché è ovvio che sia io quella della maratona e sono sempre io quella che dopo il giro del parco ha bisogno di sei bombole d’ossigeno. Per ora.

E può essere che sia una doccia gelata a fartene rendere conto e questo dettaglio, l’acqua fredda, non è metaforico.

Può essere che tu ti senta crollare il mondo addosso e le spalle deboli, troppo deboli per sopportare il peso di una lacrima.

Perché forse anche i supereroi, le persone normali e le macchine da guerra sbagliano, piangono.

E forse anche i supereroi, le persone normali e le macchine da guerra sanno asciugarsi le lacrime ed iniziare a correre per davvero.

Ci vediamo all’arrivo, i capelli disastrosi, la maglia zuppa di sudore e una paralisi sul viso che assomiglia a un sorriso.

La peperonata del compromesso

Forse si diventa grandi quando s’impara a chiudere dolcemente le porte, quando si scende ai primi compromessi, quando impari che “tutto e subito” è solo per i capricciosi. Nasci con l’idea che a compromessi tu non ci scenderai mai, che i tuoi ideali e i tuoi sogni non hanno sfumature, solo bianco o nero.  Poi scopri il grigio e ne diventi dipendente.

Scopri che uscire sbattendo la porta fa molto rumore ma chiude le menti dietro infantili ottusità, non lascia spazio al grigio. E invece accompagnando gentilmente la porta puoi vedere come la luce si mischi alle tenebre, come il freddo e il caldo intiepidiscano, come impari a stare in equilibrio sulla fune.

Crescere significa anche saper incassare aspettando il momento giusto, spegnere il fuoco della rabbia cieca semplicemente aprendo gli occhi.

Crescere significa sapersi assumere le responsabilità dei propri errori e capire che a volte le proprie ragioni vanno fatte valere con i fatti perché valgono più di tante belle, o brutte, parole.

Crescere significa stringere i denti davanti alle difficoltà pur di non cedere perché non puoi cedere. Perché ce la puoi fare e lo sai, caccia in gola la paura e tira fuori gli attributi.

Ho sempre pensato che io a compromessi non ci sarei mai scesa,  che la vendetta è indispensabile per mettersi il cuore in pace perché a me sbattere le porte è sempre piaciuto un sacco.

Ma solo gli stolti non cambiano idea, dicono così.

Solo gli stolti non sanno trovare un punto d’incontro, un punto d’equilibrio.

E ho capito che in realtà la vendetta è dei deboli, è di chi non sa dimostrare a sé stesso di essere forte e si appoggia a parole velenose, a gesti rancorosi pur di togliere il male da dentro di sé per gettarlo sull’altro. E dopo che ti vendichi stai lì, assetato di un gesto di risposta perché la vendetta non basta a se stessa, la vendetta vuole vendetta e nessuno, nessuno ne esce vincitore.

Ma io credo si vinca con se stessi e mai contro gli altri, perché la soddisfazione te la dai da solo quando puoi permetterti di guardarti allo specchio col cuore in pace e il sorriso sul volto perché ce l’hai fatta e l’hai dimostrato all’unica persona che conta: Tu.  Perché in fondo quando sbatti quella porta il rumore t’infastidisce, ed è solo accompagnandola che ti senti leggero.   Ed il mio è uno sfogo bello e buono, lo so. Ma sto imparando ad aprire gli occhi per mettere a tacere la rabbia, a rimpiazzare la paura con la tenacia. Vorrei dire tante belle cose, tipo che devi porgere l’altra guancia ed onorare la madre e il padre ma non sono una moralizzatrice né tanto meno un prete di campagna. Sono solo una ragazzina che sta imparando a digerire i compromessi meglio della peperonata domenicale.

I soliti buoni propositi

Mi piace questa tradizione dei buoni propositi per l’anno nuovo. In pratica, dopo la lettera a Babbo Natale, uno deve fare la lista di ciò che intende fare nel nuovo anno. Tipo un business plan della propria vita.

Investirò di più nei sentimenti, metterò in cassa integrazione lo shopping, investirò su amici, vino e cibo buono.

Mi autotasserò ogni volta che dirò una parolaccia ed userò quel tesoretto per farmi una vacanza in barca.

Ottimizzerò la produzione studiando di più e diminuendo le pause caffè ottenendo così un guadagno al netto della soddisfazione pari a circa millecento sorrisi in più al mese.

Taglierò il tempo perso a farmi problemi inutili investendo un paio d’ore a settimana dedicate alla ricerca delle risposte alle grandi domande sull’universo.

Comprerò dunque un bel cappotto per prepararmi al nobel per la matematica che dubito vincerò. E non lo vincerò perché un’amante di Alfred Nobel se la faceva allegramente con un mago del 2+2, mister Magnus Gustaf Mittag-Leffler, e per colpa della sua bacchetta magica io non potrò mai diventare la prima donna a vincere il nobel per la matematica.

Mai mischiare sesso e affari, sempre detto.

Assumerò nuovi atteggiamenti proponendo una politica aziendale di gentilezza con il prossimo, promuoverò progetti di team building con week end al lago e in montagna.

Metterò l’arte al primo posto per far sì che il lavoro s’ispiri sempre alla bellezza, mi batterò per la vittoria del buon gusto sul pacchiano.

Istituirò un fondo per far fronte agli imprevisti, miele in caso d’amore, corde vocali nuove in caso di  perdita di voce post-concerto, scarpe nuove nel caso consumassi le suole durante viaggi in posti ancora sconosciuti.

Farò dell’ottimismo una religione senza dimenticare di prendere un paracadute, farò meno teatrini quando mi arrabbio ed andrò più sovente a teatro.

Creerò un’ora alla settimana dedicata alla ricerca di cose sconosciute puntando a diventare massima esperta della teoria delle stringhe.

Studierò il tedesco per non sfigurare all’Oktoberfest e per rendere finalmente felice mia Nonna trovando un biondone con dei bei denti. Perché avere dei bei denti è tutto per mia Nonna.

Che poi spero vivamente che mia Nonna non stia leggendo perché il prossimo buon proposito, l’unico che tutti abbiamo, non è quello di essere felici da impazzire, non è quello di fare un bagno nei gettoni d’oro, non è quello di diventare capi del mondo. No.

Il prossimo ed ultimo augurio è terra a terra, è ritorno alle origini, è saper riconoscere che non si può sempre solo guardare in alto, bisogna anche avere il coraggio di abbassare lo sguardo ed osservare il proprio ombelico. Il mio ultimo buon proposito è dunque imparare a lasciarmi andare di più, smettere di fare il ghiacciolo anche ad agosto.

Il mio ultimo buon proposito, in sostanza, è fare più sesso.

Si ringrazia il ministero del Lavoro per il sostegno al progetto “Più sesso per un anno di successo”