Fiocco A Collo

Non c'è arte nel decifrare l'anima da un volto

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Racconti Buffi

dicembre 18, 2014carlottamarengo Lascia un commento

Ho visto i maiali volare, Gesù Cristo imprecare, ho riso per uno che quando parlava non si capiva niente.

Questi tre attori erano già buffi di loro, uno alto, uno medio e uno basso. Un barese, un toscano ed uno non lo so. Pare l’inizio di una barzelletta da raccontare la domenica in bocciofila. E invece questi sono attori professionisti.

Dunque, andiamo per ordine.

Signori e Signore. Che poi questa la capisce solo chi c’è stato a vedere i Racconti Buffi ma alla fine rivolgermi a più di cento persone mi sembra un numero sufficiente.

Signori e Signore. Vittorio. Mani di libellula, capelli da topo di città.

Ed ecco Beppe, alto e magro, spalle strette piedi lunghi, non chiedetegli se è di “Beri” che vi racconta vita morte e miracoli di come Lino Banfi abbia rovinato la reputazione dell’accento pugliese in Italia. E sappiate che si dice semplicemente “Bari”.

Giuseppe Scoditti racconta di un maiale, della sua maiala che detto così suona male ma intendo dire la sua fidanzata, del regalino di Dio, un bellissimo paio di ali e di come, a volte, una puzzetta possa costarti il posto in paradiso. Tutto in pugliese. Mentre cerchi di non dar peso al male ai muscoli facciali dal ridere, ti complimenti pure con te stesso per aver capito un monologo in un dialetto che non sapevi di conoscere. Sorprendente.

Lorenzo Frediani. Maremma Lorenzo che bischero. Gesù con lui è davvero bambino, un timidone che vuol solo giocare con Pietro e gli altri. Sogna di fare il capo dei giochi, chiama il babbo e fa i capricci, fa i miracoli solo per ingraziarsi gli amichetti. Insomma, è un po’ come quando al mattino ti alzi ed il tuo mignolo incontra lo spigolo del comodino, come quando ti aprono una porta sul muso, come quando, in sostanza, non ti resta che dire “complimenti Gesù, un comportamento molto maturo per una divinità”.

La regia dice che a Piombino c’è un’ottima pasticceria, mi sembrava giusto ringraziare gli sponsor prima di concludere.

E poi entra lui, l’uomo che sul palco non teme confronti con l’arcangelo suo omonimo, l’uomo a cui tutti a fine spettacolo han detto “sei un grande” nonostante sfiori il metro e settanta solo con i tacchi. L’uomo per cui il mio vicino mi ha tirato una pedata sulla schiena mentre si contorceva dal ridere. Ho ancora la tua suola sulle vertebre stronzo. L’uomo che, per dovere di cronaca, risponde al nome di Gabriele Scarpino e che, per venticinque minuti, ci ha ipnotizzati con un monologo in grammelot. Ed ad un certo punto ho pensato che il Piccolo Teatro Giraudi venisse giù a forza della fragorosa risata della vecchina in quinta fila. La cosa mi ha rincuorata, almeno sulle corde vocali non ha rughe la signora.

Che poi a ben pensarci quello che ci ha divertiti non sono state le classiche battute sulle tette, sul sesso, sulle relazioni tra uomini, donne e vigili urbani.

No. Quello che ci ha divertiti è stato vedere Dio che ci mette e ci toglie le ali (l’ufficio legale Redbull mi ha dato il nulla osta per i diritti sulla frase), Gesù che diventa umano non solo fisicamente, ma anche mentalmente. Gesù che sbaglia come noi, che fa i capricci, che si vendica. Abbiamo riso, infine, nel vedere come l’uomo abbia creato la tecnologia rimanendone, in alcuni casi, egli stesso vittima.

Come direbbe Pirandello, Il comico è un “avvertimento del contrario”  ed I Racconti Buffi ce ne hanno dato prova.

Monologo dell’educatore.

ottobre 23, 2014carlottamarengo 1 Commento

Quanto segue è un monologo teatrale scritto a quattro mani. Parla di un educatore professionale, una figura che fa del bene a chi non si ricorda cosa significhi il bene. È un monologo che parla di matti, di chi è cresciuto troppo in fretta pur restando bambino, di persone che hanno perso la loro forza.  La mia musa, Chiara, è l’ideatrice di questo pezzo, io non ho fatto altro che mettere in parole i suoi pensieri. Grazie Chiara per avermi fatto sbirciare nella tua testa riccia.

Entra in scena l’attore con una valigia nella mano sinistra, in quella destra tiene un caleidoscopio. Poggia il bagaglio a terra, si schiarisce la voce.

Ho viaggiato per mare, mi è sempre piaciuto guardare come il vento ne increspi la superficie.
Mia madre diceva che solo provando la fame si può davvero gioire della sazietà così ho pensato che… bè è solo stando nell’oceano che si può amare la terra ferma.
Sono partito pensando che ciò che mi attraeva fosse solo il mare, nient’altro. Ho poi scoperto che il vero viaggio erano le isole nascoste, quelle che a volte quasi non si vedono sulle mappe, quelle isole un po’ dimenticate, un po’ pericolose, un po’ piene di un fascino che solo i veri viaggiatori sanno apprezzare.
Ci sono così tante isole diverse che non basta una vita intera per scoprirle tutte. Ad esempio, all’incirca tra il Polo Sud e il Polo Nord, ce n’è una dove si sta sempre in silenzio.
Zittisce il pubblico.
Shhhhhh, non parlare, non parlare. Tutti zitti, ognuno nel suo spazio, guai a te se lo invadi. Ogni persona è uno Stato a sé, tiene tutto dentro. Shhhh fai piano. Non parlare, non toccare, puoi solo guardare.
Lì ho capito perchè diciamo che gli occhi sono lo specchio dell’anima.
Canticchia   “tu prova ad avere un mondo nel cuore”… e saperlo esprimere anche senza parole. Perchè se scavi a fondo, dietro le ciglia, dietro la paura, dietro le pupille giù in fondo fino all’anima, bè ci trovi un mondo. Ho messo nella mia valiga un po’ di quel silenzio, ho insegnato loro la bellezza di un sorriso.
Ma voi lo sapete che esiste un’isola dove ci sono dei fiori bellissimi, dei fiori così belli che se per caso provi ad annusarli il tuo cervello diventa una lucina di natale, di quelle intermittenti?  E tutti gli abitanti quel fiore l’hanno annusato eccome.
Che ci frega di avere delle sinapsi perfette se ci è negata la bellezza?
Ho dato loro delle mascherine per proteggersi dal polline, ho prestato attenzione solo ai momenti di luce, dimenticando i loro bui.
Ho incontrato una donna che piangeva in un angolo, e già questo è strano visto che la sua isola era tonda.
Aveva paura degli elefanti, ma non vedeva che intorno a lei c’erano solo foche. Piangeva piangeva piangeva e dio solo sa quante delle sue lacrime adesso fanno parte di me, le ho messe in una bottiglia qui nella mia valigia. Mi si è stretto il cuore, mi si è strettA al cuore così forte che per un breve lunghissimo istante ci siamo fuse insieme e anch’io ho visto gli elefanti, e anche lei ha visto le foche.
Mi sono spogliata dei miei abiti quando ho incontrato una ragazza nuda. Stava ferma immobile al freddo ed era nuda. Mica lo senti il freddo quando pensi di avere il ghiaccio nel cuore, quando ti spengono il fuoco dell’anima.
Ho raccolto la poca legna che ho trovato, sono stata una modesta scout dopo tutto. Ci siamo impegnate, abbiamo sofferto, ci siamo aperte le mani a forza di sfregare e poi tutto d’un tratto eccola. Eccola lì, la scintilla che si accende, il calore che ti penetra implacabile dentro le ossa e tu sì, capisci di essere ancora vivo perchè un fuoco, se sai sfregare i legnetti, si accende sempre.
Io il mio viaggio l’ho fatto e per quante tempeste abbia incontrato, per quante giornate senza vento ci siano state, per quanti porti difficili io abbia visitato, ecco io ripartirei domani se potessi. Rifarei tutto da capo, mi godrei il silenzio e gli sguardi di chi non sa parlare con la bocca, gli elefanti che ci travolgono la testa, i bui della mente umana e il freddo, il freddo glaciale di chi non ha più nulla, di chi non ha mai avuto nulla. E ripartirei da capo per vedere tutti sorridere, per donare loro nient’altro che luce, per imparare da loro la felicità che non hanno mai conosciuto. E vedi questa valigia non ha quasi nulla al suo interno perchè in fondo nessuno ha ancora capito come si possa imbottigliare un sorriso, un’emozione.
Prende il caleidoscopio e lo porta davanti all’occhio.
Verde rosso blu giallo indaco arancione bianco. Bianco arancione indaco giallo rosso verde. Un naso un braccio una bocca l’orecchio sinistro. Ti devi avvicinare per vederlo.
Lo allontana un po’.
Ecco adesso non c’è nulla, solo grigio. È che in fondo, io credo, in fondo le persone per guardale nella loro meraviglia mica puoi tenerle lontane, ci devi andare dentro, scavare, amarne i colori, ogni singola sfumatura di blu. Come questo caleidoscopio no?
Guarda nel caleidoscopio.
Solo se ci ficchi bene contro la pupilla allora si rivelerà, altrimenti cosa vale? Nulla. Ecco il mio viaggio, ecco la mia vita. Io ricerco costantemente l’amore per quel puntino rosso, quello che vedi proprio solo da pochi centimetri di distanza. Io viaggio tra le isole perché ognuna è diversa, perché ognuna mi costringe ad approdare in porti difficili facendomi scoprire che,  in fondo, so essere un discreto marinaio.
Raccoglie la valigia da terra. Esce.

“L’educatore professionale in Italia è l’operatore sociale e sanitario che, in possesso della specifica laurea di I livello e dell’ abilitazione, attua specifici progetti educativi e riabilitativi, nell’ambito di un progetto terapeutico elaborato da un’equipe multidisciplinare, volti a uno sviluppo equilibrato della personalità con obiettivi educativo/relazionali in un contesto di partecipazione e recupero alla vita quotidiana; cura il positivo inserimento o reinserimento psicosociale dei soggetti in difficoltà.

L’educatore professionale rientra nel novero delle professioni sanitarie della riabilitazione assieme al Logopedista, al Fisioterapista, al Terapista Occupazionale, al Terapista della Neuro-Psicomotricità dell’età evolutiva, al Podologo, al Tecnico di Riabilitazione Psichiatrica e all’Ortottista ed assistente in Oftalmologia.”
Fonte http://www.wikipedia.it

Oh My Gatsby

Maggio 21, 2014Maggio 21, 2014carlottamarengo Lascia un commento

Schermi di carta 2, Asti. Quando la letteratura incontra il cinema, quando il genio dei grandi incontra l’innocenza degli emergenti, ecco che nasce una manifestazione che non è solo belle pellicole, non è solo arte, non sono solo parole eppure è tutto questo.

C’è chi ha messo gli occhi attraverso le sue mostre, chi ha messo la testa e qualche virgola per scolpire nero su bianco la propria versione, c’è chi ha messo braccia, bocca e il corpo tutto per dar colore alle parole. Il cuore, quello lo abbiamo messo tutti.

Ho avuto l’onore di introdurre “il grande Gatsby”, ho avuto l’onore di collaborare e di far interpretare il mio testo, che in realtà è diventato il nostro, da Simone Coppo.

Chiudete gli occhi se potete, guardate adesso Simone, guardate adesso il nostro Gatsby.  

 

Verde. Là, un piccolo punto verde, una lontana speranza.

Il tuo banale molo di legno, il mio porto sicuro.

La speranza che guardavo con lo sguardo fisso, sognando di raggiungere quella luce…di raggiungere te.

Senza comprendere che il verde non è solo speranza, è anche il colore di chi si nasconde dietro quattro

mura, di chi alla luce preferisce guardare il palo che la sostiene, grigio e freddo acciaio.

Senza comprendere che il verde è anche il colore della paura.

Sono in alto, poco più su della mia torre che tanto ti piaceva. C’era molto bianco, sai? Il bianco delle mie

bugie, innocenti. “Il fine giustifica i mezzi” …già. E tu, solamente tu, eri il mio fine.

Mi ero armato di calici di champagne, avevo indossato la mia uniforme col papillon, un po’ di brillantina per

proteggere il capo, ed ero entrato in guerra.

Tu eri il mio obiettivo, una terra che mi era stata ingiustamente rubata e ora volevo… dovevo, dovevo

riprenderti, portarti in salvo da tutto ciò che non ero io, da tutto ciò che non ti avrebbe resa infinitamente

felice.

Al tuo pallido faro verde io rispondevo con le mie luminarie bianche immacolate, candide come il nostro

sentimento. Come il mio.

Al buio del tuo cuore io opponevo le paillettes scintillanti di cui riempivo la mia casa, di cui avrei riempito la

nostra casa.

Avevo indossato una maschera con tutti solo per poterla togliere al tuo cospetto insieme alla camicia di

lino, leggerissima, e ai pantaloni neri, pesanti, troppo. Avevo riempito la mia casa di sconosciuti per poter

rimanere solo con te.

Tu non sei mai stata un libro aperto, le pagine di un libro sono in bianco e nero mentre ai miei occhi tu

eri giallo, arancione, verde poi di colpo rosso, violetto e ancora tutti i colori insieme dentro la tua anima,

dentro il tuo corpo nudo. Ti ricordi le carezze che sapevano di primavera? Ti ricordi i baci rubati nel parco

e quelle parole come petali? Ecco io non ho vissuto che per quei momenti, quei brevi attimi che non

fuggivano, non dalla mia testa.

Noi, solo noi al centro esatto della mia stanza, al centro esatto dei miei desideri. Fermiamoci, non usciamo

di qui, non lasciarmi mai. La seta ci avvolge e io mi sento ubriaco di felicità. Guardami negli occhi, dimmi

che mi ami. Dimmi che ami solo me. Dillo al mondo intero, dillo a lui. Dopodiché guidami, portami dove

vuoi, a casa, al mare, o all’inferno fa lo stesso, ti seguirei ovunque, ti ho seguito ovunque. Basta feste,

basta rumore, basta alcol e volti sconosciuti. Sono disposto ad essere perso nel buio, se ho te, che sei il mio

sorriso, il mio faro nella nebbia.

È stata tutta colpa della guerra, è sempre colpa della guerra. Io ero giovane ed inesperto, tu bella

da accecare. E io infatti non vedevo altro che te. Poi quella lettera, la partenza per il fronte, il nostro

giuramento di eterna fedeltà.

Sono venuto a cercarti, sono venuto a prenderti. I cavalli sono passati di moda, posso offrirti la mia

macchina. Ho cambiato nome, sono diventato ricco per te. Ti ho dedicato ogni molecola d’aria che ho

respirato, ho pensato ad un regalo da farti per ogni singolo dollaro guadagnato. Ho aiutato il destino a

venirci incontro, mi sono trasferito di fronte a te.

Eccomi.

Guardami nel mio smoking nero, nei miei occhi puri.

Osservami mentre ti guardo, mentre il cuore quasi cede di gioia, mentre la mia verde speranza brilla nei

miei occhi, riflessa. Lasciati prendere per mano, lascia che ti conduca nelle viscere più profonde della mia

anima giù fino ai lombi. Guidami lungo le tue dita, guidami sul tuo anulare sinistro.

Abbi fede, la mia fede.

Scappa, fuggi, vieni via con me. Torniamo bambini, torniamo innocenti. Lo senti? Riesci a sentirlo? È uno

squillo, è un telefono. No, non è tuo marito, non è il suo tradimento, non è la tua ora. È la nostra ora, è il

nostro momento. Avanti amore il mio numero lo sai, non avrai il tempo di dire pronto che io già sarò da te.

Non aver paura, apri la tua gabbia, spiega le tue ali. C’è un filo ben visibile che collega i nostri apparecchi,

ma invisibile è il collegamento tra i nostri respiri. Non reciderlo, ne morirei.

Forse…forse è davvero colpa mia, forse sono io ad aver sbagliato tutto. Ti ho consegnato la mia vita e la mia

auto, pensavo potessi portarmi lontano fino al centro del mio sognare. E invece no. È che tu. Eh. Tu sbagli

e io non lo sapevo, non pensavo che anche tu potessi fare errori. Ora hai capito la differenza tra freno ed

acceleratore? Sei un’assassina innocente, un’assassina per sbaglio. Hai dato gas quando era il momento di

stare fermi, hai tirato il freno a mano quando avresti dovuto correre fin da me. Io ho mentito per te mentre

tu . Hai solo saputo mentire a te stessa. Eri tu al volante, capisci? Tu alla guida, tu ad averla uccisa. Ed io ti

ho protetta come ho sempre fatto, come avrei sempre fatto. Come nonostante tutto, continuerò a fare,

sino alla fine, ed oltre.

Un colpo al cuore. Uno, solo, preciso. L’esatto momento in cui senti il click, l’esatto momento in cui ti volti e

non alzi il ricevitore, l’esatto momento in cui chiudi la valigia senza sapere dove andrai, l’esatto momento in

cui la luce verde si spegne insieme alle tue speranze. Click. Ricordo ancora quando l’ho udito. Ero in piscina,

mi immergevo e provavo a vedere quanto tempo riuscivo a stare senza ossigeno, quanto tempo riuscivo a

resistere. L’ho sentito, ho percepito che c’era qualcosa nell’aria. Sono riemerso, sono tornato alla realtà per

te perchè solo con te il verde è verde e il grigio scompare. L’acqua fredda gioccolava dalle dita. Una goccia

per volta. Click. Il mio cuore è esploso. Click. Hai chiuso la tua valigia. Click. Come un filo che viene reciso. \E

le due cime cadono lentamente nel buio, lasciando l’eco del silenzio.

Hai buttato la chiave della tua gabbia dopo averla chiusa a doppia mandata, hai lasciato che la felicità

suonasse a vuoto nel tuo salone, senza danzare, hai lasciato che tornassi negli abissi senza di te. Eppure se

chiudi gli occhi puoi vedermi, se tendi la mano puoi sentirmi.

Sei un’assassina,

lo sei.

Ma il nostro amore continua a indicarti la strada. Seguendo le verdi pulsazioni di una speranza.

 

Testo di Carlotta Marengo

Riveduto e adattato da Simone Coppo

Schermi di carta https://www.facebook.com/schermidicarta?fref=ts

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