Ad Intermittenza.

Bimba mia,
Un tempo quando parlavo di lucidità mi riferivo a quella del tavolo di cristallo, mai avrei pensato di usarla per parlare della mia mente.

Ti chiedo scusa, immensamente scusa anche se, purtroppo, non ricordo bene per cosa.

La demenza senile è una cosa strana, è una lampadina avvitata male che si spegne e si accende come vuole. Ti chiedo scusa perché non so riavvitarla. Tu guardandomi pensi che sia fulminata, un vecchio aggeggio da cestinare. Hai mai pensato che io sento l’energia ma non riesco a illuminarmi? Non sono spenta, non sono morta. Sono intermittente.

Non ho scritto se ho preso la pastiglia, non ricordo se proprio non l’ho presa o se mi sono dimenticata di appuntarlo. Se adesso ti chiamassi forse tu ti arrabbieresti, mi diresti che sono rincoglionita e ti direi che hai ragione. Forse tu non lo vedresti ma il mio cuore avrebbe un battito in meno, morirei per un istante.

Ti ho messa al mondo e ho giurato che ti avrei protetta dal freddo, dal mostro sotto il letto e dalla sofferenza inutile. Così mi chiedo che senso abbia continuare a stare qui se sono io stessa a gelarti il cuore, io stessa a chiamarti per scacciare i mostri della memoria, io stessa a farti soffrire.

Ti ricordi com’ero bella e forte mentre ti crescevo? Se mi abbracci troverai ancora un po’ di luce nei miei occhi. Lasciami andare, non verso la morte questo no, lasciami scorrere senza preoccupazioni verso una nuova fanciullezza. Lascia che dimentichi le pastiglie ma che ricordi l’aperitivo con le amiche. Lascia che ti chieda venti volte se hai già chiamato Laura, credi che non abbia anch’io la sensazione di avertelo già chiesto?  Io non ho colpa ma forse me lo merito, non sono mai stata spensierata come adesso, non sono mai stata fantasiosa come ora. Ho perso la memoria ma non è nel mio nascondiglio segreto. Nemmeno quello ricordo dove sia. L’ho persa ma, come vedi, ancora viene a trovarmi come uno spasimante che non si rassegna.

Prendimi tra le tue braccia e cullami come facevo io, dammi un bacio in fronte e dimmi che andrà tutto bene, che ci sei tu a tenermi la mano. Cerca di vedere la luce anche nei miei attimi di buio, cerca di immaginarti come io mi senta in colpa nei miei attimi di luce. Non ricordo se non le cose importanti, allora da vecchia mamma un po’ rimbecillita tutto quello che davvero ti chiedo è: fai sì che le cose importanti che ricordo siano il tuo sorriso e le risate dei nipoti, niente lacrime e urla. Perché nessuno ne ha colpa, non rendermi colpevole. Non ho scritto se ho preso la pastiglia, non ricordo se proprio non l’ho presa o se mi sono dimenticata di appuntarlo. Se adesso ti chiamassi forse tu ti arrabbieresti, mi diresti ancora che sono rincoglionita?

 

Mamma

Mantienimi per mano.

Mi chiamo Loredana e faccio la mantenuta.

Nella vita mi sono sentita dire di tutto. I meno fantasiosi mi danno della puttana, della donna dai facili costumi, alcuni mi chiamano Lolita senza nemmeno sapere cosa significhi.

Nessuno però si è mai sforzato di mettersi davvero nei miei panni, di capire il mio punto di vista. Seduco uomini più ricchi di me per viaggi, scarpe, borse, vestiti, se faccio bene il mio dovere anche automobili. C’è una parola polacca che descrive le donne come me, è “galarianki” e significa, per l’appunto, donna che si concede in cambio di regali.

Il fatto è che io non mi mercifico, io m’innamoro davvero. Certo, m’innamoro dei conti in banca, ma l’amore non per forza è solo quello tra un uomo ed una donna, anche i gay si sposano oggi. In più, miei cari, non è poi così diverso dall’amore dei gentiluomini che frequento. Credete che loro s’innamorino della mia risata, della mia intelligenza, delle mie parole? No signori, s’innamorano del mio culo, del mio seno, delle mie gambe accoglienti. E dunque io vi chiedo dove sta la differenza tra me e loro, tra chi s’innamora della mia pelle e chi s’innamora della pelle di un portafoglio.

Vedete bene che il dubbio si sta lentamente insinuando dentro di voi, che in fondo non avete mai pensato che gli uomini con cui esco sappiano benissimo quale sia il mio obiettivo, che io sappia benissimo quale sia il loro. Credevate davvero che un broker che fattura miliardi di dollari non fosse in grado di riconoscere un suo simile, di riconoscere chi venderebbe l’anima o nel mio caso il corpo per un pugno di quattrini?

La verità è che io e i gentiluomini che frequento ci usiamo a vicenda: io sono il loro bel trofeo da portare fuori e loro sono il mio bancomat. Io non faccio domande scomode e li appago sessualmente, loro mi regalano vestiti. Credete veramente che potrei fare questa vita se non fossi estremamente bella e seducente? Non vi siete mai chiesti perché i pezzi grossi non frequentino quasi mai delle “brave ragazze” magari bruttine e col culo basso? Credete che questi gentiluomini uscirebbero con donne così belle se non avessero così tanti zeri in banca? Sono amorale tanto quanto loro se vogliamo dirla tutta. Solo che nelle vostre piccole menti io passo per la zoccola e loro per il pesce grosso che ha abboccato. Ma siamo entrambi pesci, ma siamo entrambi pescatori. Il mio lavoro è molto simile a quello di una modella, entrambe ci spogliamo davanti a un obiettivo solo che io posso mangiare ostriche e champagne senza dover ingoiare cotone per riempirmi lo stomaco, senza dover pippare cocaina per non sentire la fame. Non ho avuto la fortuna di incontrare il vero amore, tanto vale trovare un compromesso.

Vedete, quello che più mi disturba è la vostra ipocrisia: quante volte avete detto “esco con lui perché è figo, esco con lui perché è quello di cui ho bisogno, mi fa sentire protetta, importante. Esco con lui perché mi ama e anche se io non lo amo bè, ho bisogno di sentirmi amata”? Quante volte avete fatto l’amore sapendo che di amore non c’era traccia, quante volte avete usato dei poveri cretini per rinforzare la vostra autostima? Ecco io sono come voi ma senza ipocrisia, io non nascondo i miei bisogni, non l’ho mai fatto. Io non prendo in giro i miei uomini e loro non prendono in giro me. Abbiamo un accordo, io svuoto i loro lombi, loro riempiono il mio guardaroba.  Lineare, semplice, perfetto. Quindi fatemi un favore, care bacchettone, la prossima volta che volete criticarmi pensate a quante volte voi stesse avete usato i vostri partner solo per futili motivi che non avete avuto il coraggio di ammettere nemmeno a voi stesse. E pensate che invece io ai miei gentiluomini chiedo solo una cosa: tienimi per mano, mantienimi.

 

 

 

Foto: Simone Infantino.

Corso di cucina per amanti inesperti.

Caro Amore,

ti avevo preparato una torta per stasera, una torta con mele e cannella come piace tanto a te.

Mi sentivo così felice mentre la vedevo lievitare, mi sentivo così felice mentre quel caldo profumo si diffondeva nell’aria come musica in un giorno silenzioso.

Era bellissima con quella crosticina così fragile, mi sono persa a guardarla.

Sei la mia primavera, Amore. Averti accanto mi fa venir voglia di essere migliore, di fiorire da un piccolo ramo secco in cui il sapiente giardiniere ha creduto, in cui tu hai creduto sin dal primo istante.

Ti chiederai dove avrò nascosto la torta di mele, avrai alzato velocemente lo sguardo per cercarla.

Non la troverai, l’ho buttata.

Sapeva di copertone con un pizzico di cannella. Ci ho messo così tanto amore nel prepararla che mi è venuto da piangere quando l’ho assaggiata.

Forse l’amore da solo non basta, forse ci vogliono altri ingredienti. Eppure ho seguito la ricetta passo passo, farina, uova, latte, zucchero e lievito. C’era tutto. Anche le mele e la cannella. Setacciare, mescolare, infornare. Forse ho sbagliato la cottura, forse sbagliamo senza rendercene conto.

Ma come fai tu a cucinare così bene, ma come fai tu ad amare così bene? Hai frequentato dei corsi, chi è il tuo maestro? Mi hai insegnato così tante cose che avrei voluto dimostrarti di essere all’altezza, alla tua altezza. Hai rotto i miei muri in punta di piedi ed io invece ho rotto i vasi del salotto mentre urlavo contro me stessa. Mi hai abbracciata mentre tremavo in un angolo e non ho saputo far altro che spingerti lontano. Ma tu sei tornato e mi hai tolto quell’odore selvatico che odiavo così tanto da averlo fatto mio e adesso profumo di torta al cioccolato.

A volte mi chiedo come tu faccia ad amarmi, come tu possa vedere il Sole oltre le mie spine. Semplicemente lo fai. E vedi forse è proprio questo, forse è che mentre setacciavo la farina mi sono cadute alcune spine velenose, non hanno più motivo di proteggermi, non ho motivo di proteggermi da te. E forse sono quelle spine a rovinare le torte, a rovinare l’amore. Ma ho deciso che non voglio compatirmi, voglio capirmi insieme a te. Così ho buttato la torta, l’ho buttata per strada e ho aperto le finestre per non lasciare nemmeno un’ombra di quell’odore amaro.

Sono uscita a ricomprare la farina, il latte, le uova e la cannella. Mettiti il grembiule Amore, fammi un corso di cucina per amanti inesperti.

Il mostro di Loch Ness

Stamattina sono uscita di casa ed ero in ritardo. Come al solito, penserai.

In realtà non sono proprio uscita di casa, è più corretto dire che se non fosse stato per l’impresa di pulizie che lascia sempre il portone aperto mi ci sarei spalmata su quel portone. Magari mi sarebbe venuto un bel nasino alla francese.

Ho messo un piede in strada e mi sono bloccata, di colpo. Credo di aver sorriso per una frazione di secondo. C’era elettricità nell’aria, non ho mai capito bene cosa significhi ma rende l’idea, non trovi? C’era quell’odore di ghiaccio, di neve.

Mi sei venuta in mente tu.

Stava certamente nevicando sui nostri alberi, sul nostro tetto e su quei prati che diventavano più verdi quando noi ridevamo.

Eravamo come sorelle, ti lasciavo finire sempre la mia cioccolata calda. Non l’ho mai più fatto con nessuno. Mi tenevi la mano in seggiovia, ti passavo i compiti di matematica in mezzo ai fazzoletti. Ricordi quando la maestra ci aveva scoperte?  Ti eri soffiata il naso e con l’inchiostro ti eri tatuata per sbaglio un bel “=2” sulla guancia destra.

La mia copertina ha ancora il tuo profumo se chiudo gli occhi. Ci siamo sempre dette che l’amicizia è più forte dell’amore, che la nostra amicizia era più forte del mostro di Loch Ness.

Poi siamo cresciute. Tu in quell’università, io in quell’altra. Tu con i tuoi nuovi amici, io con i miei. È stato come mangiare un cucchiaino di Nutella al giorno e poi accorgersi una domenica mattina che il barattolo è vuoto e i supermercati sono chiusi.

Dovevamo prendere un caffè il sabato, ricordi? Dovevamo prendere un caffè e io non ti ho chiamata. E tu non mi hai chiamata. Non c’è nulla di male nel dimenticarsi le cose, siamo sempre state distratte. Ma ci sentivamo colpevoli, ho pensato che se ti avessi chiesto scusa tu avresti pensato che ormai non m’importava più di te, hai pensato che se mi avessi chiesto scusa io avrei pensato che ormai non t’importava più di me. E in fondo, forse, un po’ era così.

È stata la vergogna di quella svista ad ucciderci. È stata la vergogna travestita da paura travestita da senso di colpa. Roba che ad Halloween avremmo fatto un figurone.

E le nostre vite sono andate avanti. Tutto va avanti, nonostante tutto. L’ho scoperto quando è morto il mio pesce rosso, me lo dicesti tu. Un giorno semplicemente ti svegli e il tuo presente devi chiamarlo passato. Un giorno mi sono svegliata e non ti ho più chiamata.

Ho saputo che l’anno prossimo ti sposerai, ho saputo che m’inviterai. Mi metterò in fondo alla chiesa e piangerò due volte: la prima per la tua felicità, la seconda perché non sarò la tua testimone come avevamo giurato sulle nostre barbie. Sarà strano vederti vestita da cerimonia e non aver scelto l’abito con te, sarà strano non sentirti piangere mentre urli che sei grassa. Sarà strano non toglierti la nutella dalle mani dicendoti che di sicuro non aiuta. O forse non la mangi più, forse sei diventata una fedele del biologico e l’olio di palma lo usi solo per sporcare le pellicce delle signore Bene. La cosa che mi ferirà di più sarà dover stringere la mano a tuo marito, scoprire il suo nome quando ormai avrà già la fede al dito, sentirmi rispondere “ho sentito parlare di te, eravate così amiche”. Sarà un po’ come morire, mi andrà in gangrena il mignolo.

Chissà se gli hai mai dato dello stronzo, se l’hai tradito e quando ti ha detto “ti amo” la prima volta. Chissà dove ti porta a cena, se è bravo a letto e se quando ti guarda nuda tu ti senti bella. Quando ti ha chiesto di sposarti? Vorrei sapere che mobili hai scelto, non dirmi che ancora adori lo stile provenzale. Ti hanno mai bocciata all’università? E tuo padre col tempo è diventato più comprensivo?

Avrei voluto chiamarti una mattina di Marzo. Avevo già composto il tuo numero. È solo che non l’ho fatto. Se fossi tornata dal nulla ci sarebbe voluto del tempo per ritrovare il ritmo delle nostre risate, dei nostri silenzi, delle nostre parole. Il tempo di un caffè, forse. Poi mi sarei sentita costretta a richiamarti per altri dieci caffè perché non esiste la botta e via dei caffè tra amiche, o è un caffè serio o nulla. Ma lo sai, o forse non lo sai, temo le storie serie più del mostro di Loch Ness. Sono per gli inizi molto cauti, i famosi piedi di piombo ed invece con te avrei dovuto fare l’equivalente amichevole di una proposta di matrimonio. Non salti fuori dopo dieci anni per cinque minuti di bevanda amara, è scorretto. E così ho continuato a dormire sperando che quel piccolo angolino vuoto non mi avrebbe più fatta piangere.

E invece mi capita. Nelle mattine come queste, quando c’è aria di neve, io ti penso e quell’elettricità, ne sono sicura, è il tuo pensiero di rimando.

È un po’ come se vivessimo in due mondi paralleli lontanissimi tra loro, due mondi paralleli che si sono incrociati per così tanto tempo che nel mio mondo, nelle mie parole, ci sei tu. Se guardi bene puoi specchiarti. Se t’incontrassi adesso sarei muta, mi sono successe così tante cose in questi ultimi dieci anni che per riassumerle non saprei trovare nulla meglio del silenzio. Se t’incontrassi adesso te lo offrirei quel benedetto caffè, la casualità è senza impegno.

Sai, il mostro di Loch Ness secondo me esiste, dimmi tu se siamo più forti.

Che fine hanno fatto gli unicorni?

Ho sempre fermamente creduto agli unicorni.
Ho sempre pensato che nel mondo gli squali non ci fossero, che i cattivi esistessero solo nei cartoni della Disney.
Ho sempre pensato che la bilancia della giustizia non potesse essere altro che in equilibrio perché l’ingiustizia non esiste, non deve. Non nella mia testa.
E adesso in piena notte sono qui a camminare per le vie della città cercando gli unicorni, le principesse candide e i principi azzurri.
Sono qui che penso che gli squali mica girano col tesserino associativo “squali”, che mica hanno davvero la pinna sulla schiena. E mi chiedo allora chi lo sia e se, chi lo è, ci si senta davvero.
Come facciamo ad essere sicuri di non essere noi stessi dei predatori mascherati da cavallucci marini?
Com’è possibile che la realtà ci venga a sbattere in faccia come in un frontale sulla provinciale? Com’è possibile che i miei unicorni bellissimi siano in realtà dei pony affamati?
Che poi lo sai, Amore, io non so dirti più di tanto. Io ci provo, lo giuro, ad aprirmi il cervello e farti dono dei miei pensieri, ma è più forte di me, proprio non ci riesco.
Come potresti fino in fondo comprendere che mi ferisce quasi a morte anche la minima ingiustizia perché attacca l’equilibrio della mia perfetta bilancia? Come fare a dirti che per me tutto ciò che non è chiaro, puro ed innocente è fonte di enorme sofferenza? Che io, fosse per me, non legherei nemmeno la bici perché i ladri non esistono?
Lo vedi,  già stai pensando che io sia una bambina, una povera stupida che ancora spera di trovare una pentola alla fine dell’arcobaleno, che ancora spera nel lieto fine perché l’ingiustizia non è una fine, solo una fase passeggera. E poi questa storia degli unicorni, neanche più i bambini di seconda elementare ci credono.
Ti guardo con occhi increduli mentre mi spieghi che “interesse” non significa solo hobby, che il vero dio per molti è il denaro, che gli squali esistono anche fuori dagli oceani.
Mi sanguina l’anima ne sono sicura. Scopritrice di acqua calda, ecco il mio titolo di studio. È solo che mi ci sto scottando.
Così adesso con voce flebile continuo a girare per la città chiamando gli unicorni, cercando una luce bianca in mezzo al buio.
Tu mi guardi e non capisci o forse non sai rispondere ma io lo so, lo so che è tutto vero, che gli squali esistono così come i buoni, che il grigio è l’unico vero colore e che non sempre il finale è lieto come in Mulan.
Ma permettimi, mentre tutte queste bombe mi esplodono sugli occhi, di farle scivolare via con un po’ di lacrime che quelle sì, sono pure. Un po’ come te.

Carlotta Marengo

Lo squalo vegetariano

Ho sempre corso, tantissimo.
Non che non mi sia goduta il viaggio, non voglio mica esordire con qualche stronzata new age.
Dico solo che ho sempre corso, fin da piccolo. Ho più competizione che globuli rossi nel sangue.  Da bambino alle gare di atletica ricordo l’eccitazione totale al rumore dello sparo e una volta mi sono morso fortissimo una guancia per l’adrenalina.
Gli ultimi saranno i primi conta forse in paradiso, non di certo in pista. In pista il secondo è il primo dei perdenti, questo penso. E allora vai, una gamba dopo l’altra, un ostacolo dopo l’altro, niente può impedirmi di arrivare primo.
Ho sempre preteso molto da me stesso, forse troppo a ben pensarci. Ottima forma fisica, a scuola voti eccellenti, una vita lanciata ai mille all’ora verso un futuro che avevo già deciso, che avevo già programmato da quando avevo quattordici anni. E con il passare del tempo le mie certezze diventavano sempre più solide, sempre più concrete e palpabili.
Ma c’è un attimo prima della fine, una frazione di secondo prima della linea del traguardo, in cui tutti siamo profondamente tristi. Puoi sentirlo se ti concentri, è come se il tuo corpo rallentasse impercettibilmente perché in fondo non vuole tagliare quella linea, perché fin che corri sai dove stai andando e dove devi andare, ma dopo?
Così mi sono iscritto alla facoltà che volevo mettendo a tacere quei piccoli fastidiosi dubbi che tentavano di accarezzarmi la notte.
Così ho passato i primi anni andando come un treno, ossessionato dal ritardo. Avete presente il coniglio di Alice nel paese delle meraviglie? Ecco io ero uguale, nella mia testa continuavo ad urlarmi “è tardi è tardi è taaardi” senza mai chiedermi per cosa, esattamente, fosse tardi. In fondo non m’importava o forse mi mancava il coraggio di rispondermi.
Vivevo la mia vita come una gara di atletica: non è che puoi uscire dalla pista, non è che puoi metterti a fare i 100 metri sui gradoni delle tribune. Il percorso è già tracciato, basta che tu corra.
E sarebbe andato tutto bene, sarebbe stato molto più facile se non mi fossi, di colpo, stufato di girare sempre in tondo.
C’è un episodio che mi torna spesso in mente: un mio caro amico da piccino stava facendo una gara di nuoto, era il più forte di tutti senza dubbio alcuno. Al posto dei piedi aveva un motore da 200cv e le braccia sembravano un mulino a vento durante una tempesta.
Non ce n’era per nessuno, un piccolo squalo che però non amava mangiare i pesci, non amava vincere se non con se stesso. Il mio amico era uno squalo vegetariano. Fu così che, durante una gara, aveva dato un distacco più che notevole a tutti quegli insignificanti girini che tentavano di stargli dietro quando ad un certo punto il mio amico vide sul fondo un cerchietto. Senza pensarci s’immerse e lo raccolse per giocarci. Arrivò ultimo ma col sorriso sulle labbra, aveva trovato qualcosa che lo divertiva molto più di una vittoria. Ci fu chi rise, chi si arrabbiò, ma di sicuro nessuno notò che tra tutti quei bambini, il mio amico era stato l’unico ad aver avuto il coraggio di distaccarsi dal gruppo per scendere nella profondità degli abissi, per avventurarsi senza timore alcuno verso ciò che davvero lo attraeva.
E adesso, caro amico, io mi trovo nella tua situazione. Il traguardo è davanti a me, lo vedo ma vorrei non ci fosse, vorrei poter correre ancora per chilometri e chilometri prima di potermi fermare perché la realtà, amico mio, è che io non so se quel traguardo adesso voglio ancora tagliarlo, non so se ho voglia di correre in una pista che sembra mi s’incolli ai piedi.
Ho sempre vissuto con l’ansia del ritardo, dell’arrivare primo e adesso, adesso se guardo quella linea bianca vorrei solo fuggire lontano verso il mio cerchietto. Ma uno col cerchietto mica ci mangia a colazione.
Amico mio, fermiamo il tempo, sediamoci su questa terra rossa e raccontami, una volta per tutte, quanto è fredda l’acqua quando si scende in profondità, raccontami del coraggio di prendere un cerchietto ed avere il sorriso sulle labbra. Prendimi per mano, accompagnami al traguardo e poi portami dove vuoi, che io senza di te il coraggio non ce l’ho. 

Carlotta Marengo

La fuga della follia

Fu di lunedì mattina che il mondo si rese conto che la follia era fuggita.
Negli ospedali psichiatrici i pazienti risolvevano problemi di logica mentre medici e infermieri si giravano i pollici. Gli ubriaconi si diedero al the verde e gli psichiatri furono messi in cassa integrazione.
Fu di lunedì mattina che i pazzi del paese tennero conferenze di filosofia morale, che tutti smisero di comprare biglietti last minute.  Le sorprese si estinsero e gli ingegneri diventarono capi di governo.
Ricordo che stavo sorseggiando il mio caffè quando decisi, d’un tratto, che il vino non l’avrei più bevuto. Andai in strada e vidi che nessuno indossava più il verde né il rosa. Nessuno aveva tacchi né profumo, le chiese erano diventate centri di ricerca di geometria euclidea.
La bellezza aveva ceduto il passo alla funzionalità e di Leonardo a scuola si studiava solo più la macchina volante.
Ricordo che tutti andammo al funerale dell’Amore solo per rispetto, come alle esequie di una persona incontrata per caso in un bar di provincia. Non ci furono strette di mano né lacrime, solo una lenta processione di cappotti grigi e calcolatrici.
Il fine settimana divenne lavorativo così come il capodanno, le perdite di tempo non erano funzionali e nessuno si domandava “funzionali a cosa?”. 
Gli atleti si allevano per le Olimpiadi di matematica, le maratone furono rimpiazzate da tornei di sudoku. La parola casualità venne messa fuori legge e i libri di narrativa riciclati per pubblicare ricerche sull’origine della forza centrifuga.
Nessuno più guardava i tramonti e i pittori divennero geometri e i poeti riempitori di moduli.
Fu di lunedì mattina, se non ricordo male, che mi svegliai di soprassalto da un brutto sogno, andai in piazza e presi la mano a una pazza. Piansi fino a non avere più lacrime e la ringraziai con tutto il cuore per quel pizzico di follia che portava nel mondo.
Fu di lunedì mattina che mi ubriacai di poesia, colore e bellezza. Ricordo che chiamai il mio capo dicendo che non sarei andata a lavoro perché non ne avevo voglia.
“Lei è folle” mi rispose, “Per fortuna, a volte sì” dissi io.

Nei panni di lei. ( Ho fatto l’amore controvoglia II. Lei )

Finalmente Andrea mi ha chiesto di uscire, non posso crederci.
È da due anni che te ne parlo in modo ossessivo e questa sera è la grande sera.
In quarantacinque minuti sono pronta, tempo record. Abbigliamento studiato fino al colore della suola delle scarpe che deve obbligatoriamente abbinarsi alla clip degli orecchini, è tassativo.
Manco a dirlo il risultato è quell’elegante che può sembrare il “scusa ero di fretta mi sono messa addosso la prima gonna che ho trovato nell’armadio”. Non ci si può presentare troppo appariscenti al primo appuntamento, ne va della propria dignità.
Camicetta color crema vedo non vedo con due bottoni aperti, diventano tre se il vino è buono.
Passa a prendermi alle otto e mezza e ho un sorriso così grande che mettere il rossetto risulta più complesso del previsto.
In macchina c’è la radio e non riesco a capire quale genere preferisce, odio non conoscere chi ho davanti.
Mi porta in quel ristorantino sulla piazza giusto accanto al giornalaio, sai quello con i tavolini fuori e le tovaglie rosse. Quello dove lavora Giacomino, cazzo. Si quel Giacomino, quello che mi ha gettata nel cesto delle bambole usate manco fossi stata Patty Bravo e ora ha un senso di colpa grosso come quella collina fuori città. Odio fare pena alla gente, odio fare pena a quel cretino. Ci sediamo e ordiniamo da mangiare. In realtà voglio solo bere, sono tesa e inizio a dire cose senza senso giusto per alleggerire l’atmosfera mentre Andrea sembra perfettamente a suo agio. Dio mi sento il fuoco nelle guance e ne ho ben motivo, il vino fa dodici gradi.
Tengo banco, praticamente un monologo. Lui mi fissa con un sorriso ebete mentre io cerco di cavargli fuori le parole di bocca ma nonostante l’aspetto fisico parla meno di uno scorfano.
Che palle, perchè mi prendo sempre di quelli sbagliati? Dico lo sai che io ci puntavo molto su questo appuntamento, praticamente avevo già deciso il nome del secondogenito prima di salire in macchina (il primo quando mi ha chiesto di uscire) e invece adesso più che andarci a letto non saprei che fare. Si ok non è moralmente corretto, questo Andrea non ti piace davvero e tu non sei un uomo, tu non puoi fare sesso.
Ma sono scema o cosa? Ha un viso che neanche il David, un corpo pazzesco e poi senti sono adulta e vaccinata potrò ben fare cosa voglio no? Si ma cosa voglio? Non farmi problemi, non stasera. Basta paranoie, pregiudizi, oddio ma poi quello che dice, la moglie del fiorista cugina dello zio di mio padre cosa penserà, mi vedrà sicuramente il prete che battezzò il figlio dell’amico di Giulio mio cugino di terzo grado da parte di madre. No, la prendo alla leggera, mi godo il momento. Faccio l’uomo anzi meglio, faccio la donna libera. Bevo due Jagermeister che, anche se non sono Red Bull, mi mettono le ali. Sono carica, spacco il mondo.
Prevedibile come le occhiaie del lunedì mattina, durante la passeggiata digestiva si ferma e fa la mossa del “vediamo se ci sta ma non facciamoci sorprendere” e, questa volta, lo sorprendo io. Non gli do il tempo di fare il grande classico passo indietro che lo bacio. Un bacio di ribellione, di passione che ha il sapore di vittoria sulle mille paranoie di origine probabilmente preistorica. Non era male anche il retrogusto alcolico comunque ma lo sai quanto mi piace questa filosofia da tarallucci e vino, soprattutto vino.
Lo guardo come un leone guarda un cucciolo di antilope e mi sento la versione romana di Eva Kant.
Sta zitto per circa dieci secondi mentre io penso “se non mi chiede di andare da lui mi butto sotto le rotaie, ho pure il completino di pizzo coordinato”.
Mi salva inconsciamente la vita proponendomi “un caffè per toglierci quel gusto amaro dalla bocca”.
Adrenalina a mille manco stessi per salvare il mondo. Sei pronta? Si. Ci credi? Si. È normale parlare da soli quando si è agitati. No questa non era una domanda, era una giustificazione per la mia psicosi.
Saliamo da lui, non ho voglia di perdere tempo con un caffè, non saprei che dirgli. Cerco di appoggiarmi sensualmente sul letto e invece inciampo su un osceno tappeto finto persiano made in china e cado goffamente di faccia sul copri piumone. Mi giro pensando che la mia copertura sia saltata, la panterona è partita, ormai avrò il sex appeal di heidi ai suoi occhi e invece no. Mi prende, mi bacia, mi spoglia e quando sta zitto non è così spiacevole. 
È passionale, dolce, forse troppo. Ora senti ciccio bello non mi rovinare i piani, ma quale dolcezza e dolcezza io voglio sesso! Devo fare la rivoluzionaria mica la ragazza occhi a cuoricino che poi getti in un angolo. Tieni su la maschera, tieni su la maschera. Non ti intenerire qualunque cosa accada anche se dovesse chiederti di sposarlo sta notte. Si perchè le bambole accettano senza opposizione di essere abbandonate mentre io questa volta voglio andarmene da sola. Finiamo, mi abbraccia, mi chiede se voglio fermarmi da lui. M’invento che ho un rito pre-esame con la mia coinquilina e saltarlo è impossibile. Non preoccuparti abito qui accanto vado a piedi. Esco per strada,  non so che ore siano. Accendo una sigaretta e cammino tranquilla. Ho vinto in un gioco con me stessa e ho avuto una degna spalla.
Altro che Risiko.
Guarda un po’, mi sta chiamando proprio adesso.
Non rispondo, un bel gioco dura poco.