Acquaragia

Era un ragazzino come tanti, figlio di operai, né alto né basso, né bello né brutto. Era biondo, certo, ma di quel biondo un po’ slavato che nemmeno esiste nelle tinte dei parrucchieri che nessuno si tingerebbe mai i capelli di quel colore. Lavorava come aiutante del fabbro dietro casa dopo la scuola e non brillava di certo nello studio. Era un ragazzino abitudinario, percorreva sempre la strada davanti al macellaio per tornare a casa. Tuttavia quel giorno sua madre gli chiese di comprare un po’ di pane fresco per pranzo, avevano ospiti. All’angolo girò a destra seguendo il profumo di focaccia appena sfornata.

Aveva circa diciassette anni quando la vide. È difficile credere all’amore a prima vista quando ti scarseggia il pane sulla tavola. È difficile credere nell’amore eterno quando i tuoi genitori non fanno altro che lanciarsi addosso sensi di colpa come fossero piatti di ceramica. Quel suo sorriso, tuttavia, gli fece dimenticare tutto. “Acquaragia” pensò, “il suo sorriso è acquaragia”. Non era una metafora molto romantica ma quel ragazzino non era di certo un poeta.

Accadde davanti all’università, lei indossava una lunga gonna blu, i capelli raccolti in una crocchia come voleva la moda, una camicia bianca leggera ed una cartella di cuoio scuro. Non notò di certo quel ragazzino magrino con gli occhi cerulei. Non notò di certo il suo sussulto quando la vide passare, non percepì quell’energia cosmica che dovrebbe essere l’amore. Gli passò accanto come se lui non esistesse tanto che lo urtò involontariamente con la sua cartella di cuoio scuro.  Lui guardò l’orologio della piazza, erano le dodici in punto. Si ricordò di quel vecchio al bar che un giorno, con l’alito di chi ha assaggiato più bottiglie che labbra, gli disse che l’amore era solo un invenzione, che l’unica anima gemella è quella che vedi riflessa nello specchio mentre ti fai la barba. Pensò che quel vecchio l’acquaragia non l’aveva mai provata.

Decise che il giorno dopo sarebbe tornato in quello stesso posto alla stessa ora, avrebbe preso un bel respiro e le avrebbe parlato. Sulla via del ritorno si sentì un po’ come sua cugina Caterina, quell’inguaribile romantica che lui tanto aveva preso in giro. Si impose di smettere di fischiettare, era un uomo e non poteva abbandonarsi a tali frivolezze.

Dimenticò il pane. Sua madre andò su tutte le furie e lo obbligò al digiuno.

L’indomani, dopo la scuola, si piantò davanti all’università alle dodici in punto. Aspettò la sua amata per venti minuti ma non vide nessuno. “forse è uscita prima, forse aveva la febbre” pensò, “tornerò domani”. Quasi non si accorse che arrivò la nebbia, che iniziò a nevicare, che calpestò una primula e si ustionò il naso col sole d’Agosto. Quasi non si accorse che le prime rughe iniziarono a solcargli le guance, che il biondo fece spazio al bianco, che la scuola l’aveva finita da un pezzo. Quasi non si accorse, perso com’era nella sua fantasia, che tutto si muoveva mentre lui restava incollato a quella panchina, tutti i giorni, dalle dodici alle dodici e trenta. C’è chi va a messa e c’è chi si siede aspettando il suo destino.

Era il quattro dicembre quando tutto cambiò. D’improvviso si ricordò che era il suo settantesimo compleanno e, forse per la prima timida neve, si sentì gelare il cuore. Aveva dimenticato la sua amata. Non si ricordava più il suo viso, il suo profumo, non si ricordava nemmeno più come si era sentito quell’unica, bellissima volta che si erano visti. Aveva stravolto la sua vita per amore e ora non si ricordava nemmeno più che gusto avesse quel sentimento. Si alzò di scatto ed entrò nel negozio sulla via centrale. Pagò, uscì e tornò a sedersi sulla panchina. Non poteva accettare di aver perso quella sensazione così dolce, così potente. Aprì la bottiglia e se la scolò tutta d’un fiato. Subito un calore si diffuse per tutto il corpo, si sentiva ardere finalmente come quella volta.

Acquaragia, ecco che sapore aveva. I colori, così come i ricordi, svanirono piano piano lasciando un candido bianco, luce pura che rischiara e conforta, proprio come quel sorriso.

Fu il quattro di Dicembre che il quartiere si strinse intorno al corpo rigido di quel vecchio pazzo a cui nessuno mai ebbe il coraggio di dire che l’Università era stata chiusa almeno vent’anni prima, a cui nessuno ebbe mai il coraggio di dire che l’acquaragia era più velenosa di un ricordo.

La straordinaria storia di un uomo comune.

Mi sono sempre chiesto perché si scrive solo del dolore, della gioia, di gente che si buca e di gente che si ama, di gente con i jet e di quelli senza cibo. Ma perché nessun grande scrittore ha mai parlato di un uomo normale?

Badate bene che non mi riferisco ai finti tranquilli, a quelli che fanno attraversare le vecchiette, timbrano il badge e poi strangolano dieci prostitute per dimostrare che sono potenti. E nemmeno di quelli tanto cuccioloni che poi alle tre di notte si scolano una bottiglia di whiskey mentre la moglie pensa solo a ricordargli che sono  dei falliti e che si sarebbe dovuta sposare quel ricco industriale come diceva sua madre.

Non gioco alle macchinette, non vado con le prostitute, non ho perversioni sessuali particolari. Sono una persona comune e, per pura ironia della sorte, in Comune ci lavoro. Forse è per quello, verrà da pensare, forse è per il tuo lavoro in Comune che sei diventato comune. Non lo so, ciò che è sicuro è che non sono un eroe. Non salvo gattini, non ho idee alla Steve Jobs e non ho mai fatto free climbing. Non sono un donnaiolo, non ho avuto un’infanzia travagliata e non ho mai partecipato ad un rave. Non ho mai fatto più di dieci giorni di ritardo per riconsegnare un dvd, non ho mai fatto una seduta spiritica, ho picchiato mio cugino solo una volta quando avevamo sette anni. Non ho figli, non ho mai avuto storie adulterine e vado in palestra solo il giovedì.

Ora vedete bene che rispetto ai vari personaggi di libri, film, canzoni, io sono noioso, assolutamente noioso. Ma la noia non è un sentimento di cui la gente parla volentieri. Per i cercatori di emozioni parlare di noia è come chiedere un colloquio col Papa e dirgli che veneri  Satana. Come andare in macelleria e chiedere un hamburger di soia, in una spiaggia per nudisti con il burqa. Perché la gente ha paura della noia come i bimbi del mostro sotto il letto.

E se la guardate in quest’ottica su di me dovrebbero scrivere un libro in tre volumi perché io, che tra le altre cose mi chiamo Mario Rossi che è il nome più comune della storia, non ho paura della noia, della quotidianità. Non ho paura del caffè alle sette e dieci del mattino, della benzina il martedì pomeriggio, del brasato il sabato a pranzo.  Ma vi dirò di più ed è adesso che voi, voi assetati di eroi, inizierete a pensare che ci vuole del fegato per essere noiosi. Volete sapere perché? Perché ho avuto il coraggio, lo straordinario coraggio, di guardarmi allo specchio e ammettere che ho paura.

Ho paura di Achille, di Icaro, ho paura d’innamorarmi perché la mia gatta Penelope è scappata la prima volta che ho provato ad accarezzarla e non è mai più tornata. Ho paura d’innamorarmi, di fare un lavoro che mi consumi anche i denti, di avere più zeri in banca che libri da leggere. Ho paura di morire e di scottarmi con la zuppa se non ci soffio sopra ma il bello, l’unica cosa che veramente amo di me, è che non ho paura di ammettere che ho paura. Perché non è vero che col tempo passa anche la paura di calpestare la riga delle piastrelle, io in casa ho ancora la moquette.

E allora vivo la mia vita tranquilla, un posto fisso, gli amici di una vita, un libro ed un bicchiere di vino prima di chiudere gli occhi e se li chiuderò davvero sarò sereno.

Cosa vuol dire in fondo osare? Non ho forse osato abbattendo il tabù che tutti abbiamo, non ho osato gridando a bassa voce che ho paura e che sì, sono noioso? E mi chiedo perché nessuno ancora abbia scritto su di me, su Mario Rossi, l’impiegato comunale. Su Mario Rossi, quello che sorride e che va in Liguria ad Agosto da quando aveva cinque anni. Quello che ama la vita sì, ma a modo suo. Perché non è che tutti dobbiamo diventare ministri o rock star, non è che tutti dobbiamo arrivare ai vertici o cadere in un precipizio. Diciamo che io me ne sto seduto ai piedi della montagna e vedo tutti, uno dopo l’altro, arrivare in vetta o morire provandoci ma stai sicuro che sia che tu salga sia che tu precipiti, mi troverai sempre lì all’ombra di quel rigoglioso tiglio con un bicchiere di vino rosso e quel libro che ho sempre amato tra le mani. Non sono un eroe ed è proprio per questo che dovrebbero scrivere su di me, perché nessuno di noi è un eroe ma io ne sono consapevole.

Sistema binario

Ti ho visto quel giorno, eri sul vagone di fronte al mio. Pazzesco no, abbiamo condiviso così tanto e adesso tu sei a pochi centimetri da me, due finestrini ci separano ma io posso guardarti negli occhi.

Tra poco scatterà il bip e tu andrai avanti e io andrò indietro.

O forse sarà il contrario.

Abbiamo condiviso così tanto, siamo stati così a lungo nella stessa stazione e adesso, adesso che dobbiamo muoverci andiamo in direzioni opposte. Forse che, presi com’eravamo a scavarci l’anima, non abbiamo visto che eravamo su due banchine diverse? Forse che non ci siamo mai davvero incontrati, mai davvero sfiorati. Io da una parte e tu dall’altra.

Ci sono i binari di mezzo, è impossibile capisci?

Ma nessuno ha pensato di non salire su quel maledetto treno, nessuno ha pensato che se solo fossimo tornati indietro di qualche gradino saremmo potuti uscire da quella stazione mano nella mano.

Sono passati diciotto minuti, diciotto. Lo sai che normalmente si aspetta molto meno.

Forse i macchinisti lo sapevano, forse ci spiavano dalle telecamere come una casalinga avida guarda le soap opera. E forse ci han creduto fino all’ultimo, hanno tifato a gran voce perché non fossero solo i nostri sguardi ad intrecciarsi, perché anche le nostre mani potessero accarezzarsi, accarezzarsi per davvero. E invece siamo un film con un finale deludente,  un colpo di scena tagliato nel montaggio, una porta scorrevole che si chiude senza portone.

Così adesso sono qui e ti osservo dal finestrino e sembra quasi di sentire il tuo odore, ma sicuramente è il sudore del mio vicino ad annebbiarmi la mente. Così adesso prenderò un caffè alle macchinette e so che lo farai anche tu, un surrogato di quello al bar sulla piazza che mai prenderemo.

E mi sembra di riuscire a capire chi dice di essere impotente, chi vorrebbe con tutto se stesso una cosa e poi rimane fermo con lo sguardo vitreo prendendosela con se stesso ma continuando a rimanere fermo.

Siamo saliti su due vagoni diversi e siamo più vicini di prima, non ci sono più i binari a separarci. Siamo saliti su due vagoni diversi e siamo più lontani che mai, tu andrai a est e io a ovest. Tu vedrai il sole prima di me, la notte scenderà dopo sopra di me. Ma la notte forse non sarebbe scesa mai se ci fossimo incontrati, incontrati per davvero.

Tu mi guardi come a dire che non torni mai indietro, io ti guardo come a dire che forse saremmo andati avanti insieme.

Lo senti quel bip così forte, così insistente ora? Non ti ricorda il suono di quella macchina che monitora i battiti cardiaci, di quella roba che adesso, guardandoti, proprio non ricordo come si chiami. Quella roba che fa un rumore insistente giusto prima che il tuo cuore si fermi, giusto prima che le porte si chiudano. E non è così diverso, la macchina del cuore, le porte di un vagone, sempre un bip è. E non è così diverso, il treno verso ovest, il treno verso est, sempre alla stessa fermata s’incontrano. E quel bip mi ferma il cuore, e quel treno mi allontana da te. Eppure siamo stati impotenti, il mio cuore si è fermato, le mie gambe non hanno fatto dietro front.

Così vado avanti, qualche battito in meno, qualche fermata in più e mi chiedo se incontrandoti di nuovo per un caso non fortuito riuscirò a venirti incontro, riuscirai ad accarezzarmi il viso.

Adesso mi giro, ho un senso di nausea. Sai quando tu sei su un treno fermo e quello accanto a te si muove ed è tutto relativo, e ti senti andare avanti mentre invece sei fermo, e ti senti senza appiglio con lo stomaco in rivolta. Adesso mi giro, sei già ripartito.

La vela è tutta una cazzata.

È tutta una cazzata, la vela è solo un insieme di cazzate.

Ora si penserà che sono volgare, che uso parolacce e magari è anche vero.

Il vento in faccia, il mare che ribolle sotto la barca, le vele spiegate che tu le puoi spiegare quanto vuoi ma insegnare ad amarle è compito difficile: tutte cazzate.

La verità è che la vela ti fa cazzare, cazzare di brutto. Di quella cazzatura sana che ti vien voglia di dimostrare che anche tu ne sei capace, che anche tu puoi fare un miglio fatto bene, un bordo esemplare.

E bada bene che ogni lascata è persa.

La verità è che in barca si fa una vita da cani, si dorme nelle cuccette.

In barca quando ti urlano “strambo” mica stanno dicendo che sei anormale, ti viene da pensare che forse i pazzi sono loro.

La prima volta che mi hanno chiesto di fare un Savoia mi sono messa ad imitare Emanuele Filiberto, non è andata molto bene.

La prima volta che mi hanno detto “orzo” ho risposto “no grazie, sono un’irriducibile del caffè” ma, nonostante loro si aspettassero una cazzata, non era la cazzata che volevano.

In barca ho imparato a fare il limbo a forza di schivare il boma.

Ho imparato che l’unico nome logico a bordo è scotta, e lo possono testimoniare le mie abrasioni.

Ho dedotto che l’ancora si chiami così perché quando la dai tutti urlano di darne ancora.

Ho scoperto che la deriva, nonostante il nome poco rassicurante, è quella che ti permette di portare il culo a casa e che non da tutti i bulbi nascono i fiori, quindi caro De Andrè aggiungi anche questa ai diamanti.

Ho capito che il fiocco a collo non è un papillon ma la farfalla puoi comunque farla, che per un cambio di mura non serve un condono.

Ho imparato che se dici “guarda questa che bella poppa” nessuno ti prende per maniaco sessuale, che lo strozzatore non è un serial killer nascosto in bagno.

Ho scoperto che in pochi soffrono il mal di mare ma che tutti poi patiamo il mal di terra. Che il mal di terra è sentirsi il mare dentro in piedi sul cemento, sentirti cullato dalle onde nel centro di una piazza.

Tutto quello che ho capito, alla fine, è che la barca è una secchiata d’acqua salata in pieno viso mentre cerchi di sentire il vento ad occhi chiusi, ti scuote dentro e ti fa subito urlare di dolore e sorpresa per poi, dolcemente, farti sentire il sangue che piano piano ti riscalda, il sorriso che si distende, la voglia di altre mille secchiate.

Ti sposo ma nulla di serio.

Ho deciso che ti sposo, stai tranquilla non è nulla di serio.

Ti sposo ma voglio che sia leggero come i tuoi vestiti di seta. Dire che è una cosa seria mi fa subito intristire, mi farebbe sentire uno di quei pinguini in giacca e cravatta sempre dritti con la schiena, sempre bassi con lo sguardo per non inciamparsi nelle loro scarpe di vernice.

Ho deciso che ti sposo per come muovi le mani quando ti arrabbi, che io mica riesco ad arrabbiarmi davvero con te che disegni nell’aria.

Ho deciso che ti sposo per come mi stringi quando facciamo l’amore, per come afferri la mia anima e la tieni al sicuro.

Ho deciso che ti sposo perché se c’è una cosa che voglio fare nella vita è contarci le rughe una ad una come stelle a San Lorenzo.

Ho deciso che ti sposo perché non trovavo una scusa plausibile per regalarti un anello uguale al mio. Sai quelle cose un po’ infantili tipo il braccialetto dell’amicizia, ecco una cosa del genere. Puoi metterlo dove vuoi, anche nell’alluce destro se ti va, l’importante è sapere che io e te avremo qualcosa di uguale ed unico al mondo. Che a ben pensarci è una contraddizione ma non è che sia famoso per la coerenza.

Ti sposo ma non è nulla di serio, nessuna gabbia e nessun limite, voglio essere libero di amarti ed essere amato.

Ti sposo perché alle feste mi diverto da morire e faremo una festa enorme con amici, parenti ed una piscina di vino bianco.   

Con gli anni ti tingerai i capelli per paura di vederli ingrigire e io sicuramente non avrò mai il coraggio di dirti che quando ti guardo io ci vedo tutti i colori dell’arcobaleno.

Ti sposo perché sono sicuro, sicuro di voler passare il resto della mia vita libero insieme a te.

È solo che mi è rimasta quella paura un po’ infantile, quelle cose che la mamma esce per fare la spesa e tu vai nel panico pregando perché torni e alla fine lei torna sempre. Ecco io voglio guardarti negli occhi e sentirmi dire “sì”, perché quel sì vorrà dire che entrerai ogni giorno dalla porta principale con il latte e due baguette ancora calde. Tranquilla, io ti starò aspettando con due calici di vino francese.

E vedi bene che sono ancora un po’ bambino, che ho ancora delle paure dietro ai muscoli e lo sguardo da duro.

Ti sposo ma non è nulla di serio perché la verità è che lo faccio perché se non avessi il tuo sorriso il cuore mi batterebbe un po’ più lentamente.

Così ti sposo per vederti sorridere giorno dopo giorno e capisci anche tu che non può essere nulla di serio, perché l’unica cosa seria del nostro matrimonio è che io ti amo, ma ti amo col sorriso.

E penserai che sono un po’ sciocco, un eterno fanciullo e per darti ragione, perché qualche volta la ragione ce l’hai anche tu, ti lascio un bigliettino al fondo di questa lettera e barra pure la casella che vuoi, sai che sono estremamente democratico.

Fai con calma, ti aspetto in cucina.

daje

 

La goccia che non voleva essere oceano

Mi presento, sono Gianna, goccia d’acqua professionista da circa mille anni.

Lavoro come cascata, neve, di recente ho fatto anche l’acquazzone e l’onda anomala. La verità è che sogno di vivere per sempre in una nuvola.

Voi che leggete, voi che avete dei miei colleghi nello stomaco, vi siete mai chiesti quanto sia faticoso il mio lavoro?  Voi a cui io dono la vita, vi siete mai chiesti come sia la mia di vita?

Inizio con un freddo terribile a formare ghiacciai che altro che stare rigida tutto il tempo, non posso nemmeno rilassarmi un secondo. Poi qualcuno decide che è il momento di sciogliersi, di aprire le danze, ed ecco che inizio ad andare giù un po’ alla volta e sbatto tra le rocce,  ci sono dei cretini che mi tirano remi in faccia giusto per divertirsi. Allora io m’arrabbio e vi faccio rovesciare cari canoisti, beccatevi sta botta di freddo. Poi quando penso di avere già abbastanza lividi e che mi meriterei un caldo fiume lento e pacioso, ecco che arriva la cascata.

Io odio le cascate.

Precipiti sperando che il fondo sia vicinissimo ed invece sbatti con violenza contro altre rocce, conti fino a dieci ma il fondo ancora non si vede e alla fine finisci con una violenza inaudita sulle teste dei tuoi fratelli e ti scusi ma anche loro sanno che non è colpa loro, che non è colpa tua, che è semplicemente la vita. E sai che adesso tocca a te beccarti in testa gli altri, che magari ci sono fratelli esaltati che si divertono a fare tuffi a bomba non curanti di chi gli sta sotto, fratelli a cui auguri di diventare acqua del cesso di night di periferia, scarichi di imprese chimiche.

Che poi se ti va bene riesci a diventare fiume, che poi se ti va male diventi diga e lì son dolori, lì ci vanno solo gli eroi e i pazzi, che non è che ci sia troppa differenza tra loro.

Se diventi fiume invece sai già che vivrai sporco, sai già che ci saranno altri canottieri a tirarti remate in faccia, battelli turistici pronti a ribaltarti come un calzino e a farti scoprire quanta melma c’è sul fondo. Che sarà pieno di nutrie pronte a farti la pipì addosso, che mica io assomiglio ad un pioppo brutto roditore dei miei stivali.

Finalmente la foce,  finalmente il mare e pensi di essere finalmente riuscita a conquistarti la tua libertà.

Dovete sapere che il mare non è libertà, il mare è nonnismo. In pratica sul fondo, lì dove tutto tace e tutto è tranquillo e puoi passare il resto della tua vita indisturbato, lì ci vanno solo i veterani. Io ho mille anni, sono poco più di una recluta. Sul fondo ci vanno gli anziani, quelli che dai loro racconti praticamente hanno dissetato i T-rex, hanno visto Cesare, il rinascimento, le guerre mondiali e i più fantasiosi persino Gesù Cristo. Così visto che sono esperti, visto che si credono in pensione anche se per l’acqua una pensione non c’è, loro se ne stanno placidamente sul fondo a godersi il buio, a godersi l’immobilità. Mentre noi giovani ce ne stiamo in superficie a fare le onde.

A te caro surfista, a te che stai lì con la tua tavoletta da due soldi dico, ti sei mai chiesto quanto sia noioso per me fare la tua onda? Io non ho domeniche, non ho turni, non ho riposi, io lavoro tutto il giorno tutti i giorni perché devo, perché devo cosa? Le onde sono proprio stupide, nel ruscello è vero mi prendo le rocce in faccia ma so dove sto andando e so che mi muoverò. Ma le onde sono inutili. Pensi che io mi sposti avanti e indietro? No signore, vado su e giù su e giù tutto il giorno con una nausea pazzesca, vado su e giù per vedere quattro idioti che prendono i cavalloni mentre io mi prendo le pietruzze in faccia.

Che poi io sono ancora fortunato, pensa a chi sta nelle fogne a sguazzare nella merda o a quei poveretti degli stagni soffocati da rospi che si credono principi e ninfee che se stessero solo nei quadri di Monet saremmo tutti più contenti.

Io voglio vivere in una nuvola e volare in alto, sempre più in alto, voglio essere sfiorata dalle rondini e baciata dal sole, voglio che i bambini mi indichino sorridendo e dicendo che sono bellissima.

Lasciatelo a chi si accontenta di essere una goccia nell’oceano il posto nel mare, lasciatelo agli stuntman il posto nelle cascate, lasciatelo agli eroi il lavoro nelle dighe, lasciatelo a chi non ha più voglia di lottare il lavoro nelle fogne e negli stagni puzzolenti, lasciatelo a chi non vede la luce dentro se stesso il posto negli abissi. Io voglio volare e mi aggrapperò a tutte le nuvole, fosse anche in un cielo terso, fossi anche una nuvola di una sola goccia,  mi aggrapperò anche ad una rondine pur di restare in alto a guardare il mondo, pur di volare trasportata da un vento dell’Ovest.

Nella testa di mia nonna

Nella testa di mia nonna tutto è come lei vorrebbe che fosse: i desideri si realizzano, le cose brutte svaniscono.

Nella testa di mia nonna la realtà è emigrata lasciando spazio alla fantasia.

Nella testa di mia nonna un giorno di pioggia diventa soleggiato, il caldo afoso un tiepido venticello.

Nella testa di mia nonna la sofferenza non esiste, tutti stanno bene e lei capisce solo quello che pensa. Si passa una vita intera a pensare agli altri, a ricordarsi nomi, date, luoghi che alla fine tutto si fa luminoso, semplice luce che cancella il buio.

Nella testa di mia nonna l’unica nuvola è quando la realtà, timida, bussa a ricordarle che lei di ricordi ne ha ben pochi. Rimangono la gioventù, le vacanze in barca, l’amore della famiglia, il lavoro. Scompaiono con un colpo di spugna le ultime ore, quasi come se fosse un nastro sempre nuovo su cui incidere solo sorrisi.

Si ascoltano così tante lacrime, così tante cazzate, così tanti lamenti che alla fine si diventa quasi sordi al resto del mondo.  Ci si chiude in sé stessi quasi a dire che non si ha più voce per ascoltare, quasi a dire “vaffanculo” perché si passa così tanto tempo a rimanere ingessati, così tanto tempo a sorridere invece di arrabbiarsi perché non si rispetterebbe l’etichetta, che alla fine l’etichetta si taglia pure dai vestiti, che alla fine ad ottantaquattro anni si può dire “vaffanculo”.

E mia nonna ci sente poco ma ha denti perfetti, le è sempre piaciuto sorridere. Mia nonna da quando sono nata non ha mai cambiato pettinatura, i veri cambiamenti non si attuano che nell’anima.

Mia nonna legge sempre gli stessi libri e se le chiedi “non ti sei stufata di leggere le stesse storie?” ti risponde “è sempre come se fossero nuove, me le dimentico ogni volta” un po’ come i bambini con le favole.

E così ad ottantaquattro anni mia nonna si è creata il suo piccolo mondo fatto di poche voci e tanti sorrisi, così che per la nonna la realtà è più bella di quella fuori dal suo terrazzo fiorito, i rumori sono ovattati, il caldo è meno caldo, gli abbracci sono più veri.

Per mia nonna io sono ogni giorno più alta, ma per favore non ditele che è la sua schiena ad incurvarsi un po’ di più.

Studiati la vacanza

Gentile studente,
Anche quest’anno la tua università ha pensato a te.
Recenti studi del dipartimento di statistica mostrano come il 75% degli studenti italiani reputi un lusso il caffè al bar preferendo fare ore ed ore di coda davanti alle macchinette per un risparmio di circa 0.50 €.
La paghetta media di uno studente si aggira (eventuale affitto escluso) intorno ai 200 € mensili che il 75% degli intervistati investe esclusivamente in azioni ai tre luppoli (birra ndr).
Analizzando dunque le scelte consapevoli di questa fascia di consumatori, tenuto conto del prezzo medio di una vacanza di una settimana e dello stipendio esentasse degli studenti, le Università italiane hanno fondato una loro personale agenzia di viaggi: “Studiati la vacanza”.
Le proposte sono tante e tutte a costo quasi zero! Scegli la più adatta a te e prenotati sul sito del tuo ateneo!
Qui di seguito le opzioni più gettonate.
Categoria summer sport, per un’estate con un fisico studioso:
-scherma con i tubi porta progetti (riservato agli studenti di architettura, possibilità di corsi avanzati e principianti)
-corsa ad ostacoli tra i muschi : trova il tuo posto nelle affollate e sudate aule studio (possibilità di effettuare anche corsi di sopravvivenza)
-lotta libera applicata , lancio di manuali e spallate per il posto a sedere

Categoria cucina:
-olio di gomito e studio, mille usi che non conoscevi
-due palle così, tritatura e macinatura della carne da esami
-cigno, dal tiro alla pentola

Categoria viaggi culturali:
-lonely planet delle aule studio, tour alla scoperta dell’aria condizionata
-i segreti dei codici, da Da Vinci a Rocco, tra letteratura e diritto
-monumenti, i compagni che ti passano gli appunti e la beatificazione

Categoria benessere:
-bagno turco, la sudata prima dell’esame e l’eliminazione delle tossine
-energy drink, classi contro l’abuso
-tumori della pelle, i mille vantaggi di non prendere il sole

Prenotati, i posti sono limitati! 
Offerta valida fino ad esaurimento esami o esaurimento nervoso.
In collaborazione con l’associazione culturale “l’unico fisico bestiale lavora al Cern” e “Clinica riabilitativa per i fuori corso”.

Ringraziandoti per l’attenzione, ti porgiamo i nostri migliori auguri.

Agenzia viaggi “Studiati la vacanza”

La Verità in tasca.

John era un uomo alto, bello.

Gli si poteva dire tutto, tranne che non fosse perfetto. Nessuno mai aveva potuto anche solo pensare che John non fosse l’uomo giusto al momento giusto.

Era una persona eccezionale, di quelle che forse neanche esistono davvero. Non arrivava mai in ritardo, era gentile, intelligente e non andava mai oltre le righe, nemmeno quelle delle piastrelle. John aveva un ottimo lavoro, non diceva mai la parola sbagliata. Andava a cena con la Regina d’Inghilterra e col barbone che beveva per annebbiare la realtà.

Si diceva che John indossasse da circa quarant’anni gli stessi pantaloni, che la sarta del paese glieli rattoppasse ogni cinque lunedì e che quei pantaloni fossero semplicemente perfetti. La tasca destra era cucita e tutti sapevano il perché.

La leggenda narra che da bambino John andò a giocare nel bosco dietro casa e lì, all’ombra di un tiglio, vide una cosina tutta piccola, tutta tremante.

“Sono piccola ma ingombrante” disse questa cosina a John, “ posso stare in una tasca, ma è nella testa che non riesco ad entrare. Sono la Verità, la Verità in tasca.”

Fu così che John la portò con sé e la cucì per paura di perderla.  Le aveva sempre chiesto consiglio e lei rispondeva dicendogli che la Verità è sacra ma non sempre utile.

John era perfetto, dopo un solo sguardo capiva la natura più profonda delle persone e sapeva come usarla. Si dice spesso che il troppo potere concentrato nelle mani di una sola persona possa portare a conseguenze disastrose, ma questo non era il caso di John. Ad uno sguardo più attento si poteva dire che forse a John del potere non interessava anche se il motivo rimase per lungo tempo un mistero.

Ci sono persone sulle quali si potrebbero scrivere centinaia di pagine, ma solo un vecchio del paese buttò giù appena dieci righe sull’uomo con la Verità in tasca.

Era inverno quando lo incontrai, ero stremato dopo un violento temporale lungo la strada del mio pellegrinaggio.

Si pensa spesso che per trovare se stessi occorra andare lontano ma a me accadde ad appena venti chilometri da casa.

Un anziano signore mi aprì la porta del bar del paese e John mi offrì un tè caldo. Chiedendomi cosa ci facesse un ragazzino a piedi da solo nel rigido inverno della brughiera, mi disse queste poche parole:

“ Ho sempre pensato che avere la risposta giusta fosse la chiave della felicità. Ho sempre pensato che non sbagliare mai una mossa, non avere mai una mancanza fosse ciò cui aspirare nella vita. Perché credevo che questa fosse la sola ed unica via. Perché noi tutti demonizziamo l’errore, il caso, la zona d’ombra dove crediamo di non poter vedere, perché nel senso di colpa noi percepiamo solo un peso e non un trampolino. Ma la verità è che se nessuno più sbagliasse una risposta la vita sarebbe terribilmente noiosa, la verità è che io nonostante abbia la Verità in tasca della vita non so percepire altro che il nulla, un’autostrada dritta senza panorama. Se nessuno più fallisse nella ricerca non solo non ci si godrebbe il viaggio, ma nemmeno sapremmo quale meta dobbiamo raggiungere. Dicono di me che sono perfetto, ma è dentro di me che la vita ha smesso di esserci quando ho deciso che avrei  sempre avuto la risposta giusta. Ed ecco che a te, giovane pellegrino, io regalo la tensione della scelta, il brivido della vita, il caos primordiale. Qui sul tavolo io poggerò la mia Verità di cui non ho più bisogno e ti lascio la possibilità di portarla con te ovunque tu vorrai. Pensaci bene, tuttavia, e chiediti se anche il più saggio degli uomini non abbia mai commesso errori, se anche il più saggio degli uomini conservi ancora zone grigie. Io sono morto dentro, figliolo, e per la prima volta nella mia vita realizzo che io di sbaglio ne ho fatto uno soltanto: ho messo in tasca la Verità buttando nel cestino la mia anima. E adesso, per la prima volta in vita mia, devo finalmente chiedere scusa, innanzitutto a me stesso”.

Andai al suo funerale qualche giorno più tardi e sulla lapide erano incise queste parole:

“La verità è che di Verità si muore” .

Forse che senza errori l’esistenza stessa diventa un errore? Forse che possedendo la Verità in tasca si finisce col vivere nell’illusione?

Non lo so e non lo saprò mai. Perché io la verità l’ho rimessa sotto il tiglio e ancora oggi, dopo anni, ogni volta che non trovo risposta alle mie domande sorrido pensando a John.