Mittente sconosciuto

Dicono che ci siano persone nate con la camicia, io mi definisco nato col mezzo tight.
Figlio di grandi imprenditori, aspetto gradevole, animo gentile. Dicono che ci siano persone più fortunate di altre, ecco io sono sicuramente tra queste. Ho sempre portato il dovuto rispetto alla mia condizione di privilegiato, non ho mai evaso nemmeno un centesimo, mi sono laureato a pieni voti e ho uno splendido rapporto con i miei dipendenti.
Io e mia moglie siamo sposati da tredici anni ma siamo innamorati come due fidanzatini.
Non preoccuparti, mi rendo perfettamente conto di poter sembrare odioso, che mi va sempre tutto bene nella vita.
Il fatto è che io credo di aver trovato l’essenza stessa dell’esistenza, quel sentimento così potente da influire davvero sul corso degli eventi.
Sto parlando della speranza.
Io vivo per dare speranza agli altri, per aiutarli a riempire quel bicchiere mezzo vuoto, per farli passare dal “andrà tutto bene” al “va tutto bene”.
La fortuna mi ha dato così tanto che credo che l’unico modo per ripagarla sia donarla agli altri.
Sabato è San Valentino e io, confesso, non è che ci creda poi molto. Ritengo in realtà che sia una festa frustrante per quelle anime che ancora non hanno trovato nessuno con cui condividere amore, con cui sorridere anche nel silenzio. Perché sinceramente a me che sono innamorato pazzo non frega un fico secco del 14 febbraio ma è negli occhi delle persone sole che leggo una tristezza infinita, un senso d’invidia e a volte rabbia verso gli occhi di chi, invece, ha il lusso di poter guardare l’amore negli occhi. È per questa ragione che io e Penelope, mia moglie, abbiamo deciso di celebrare la festa degli innamorati regalando speranza a chi crede di avere solo polvere nel cuore.
Ho fatto una lista dei miei dipendenti, dei miei amici e di tutte le persone sole e senza speranza che conosco. Abbiamo comprato della carta da lettere, rose rosse e molti francobolli. Ci siamo seduti alla macchina da scrivere, il romanticismo prima di tutto. Abbiamo scritto circa cinquanta lettere d’amore tutte diverse, tutte da ammiratori segreti. È da un mese che ci lavoriamo. In ogni riga abbiamo inserito dettagli veri delle persone, il modo in cui giocano con il tovagliolo quando sono pensierose, come bevono il caffè o si godono la loro passeggiata al parco. Abbiamo scritto Dio solo sa quanto, roba che di notte sogno il rumore dei tasti e l’odore dell’inchiostro.
Abbiamo scritto per far sognare persone che ad occhi chiusi vedevano solo il buio. Abbiamo scritto per non farli piangere a San Valentino mentre in un bicchiere di vino annegavano le loro delusioni, i loro amori perduti.
È vero, hai ragione, non abbiamo dato loro un amante, non gli abbiamo presentato l’altra metà della mela.
Tutto ciò che abbiamo fatto, o che ci siamo prospettati di fare, è stato magnetizzare l’ago della loro bussola, far sì che quel pezzo di ferro tornasse ad indicare la destinazione ultima, il nord.
Perché pensiamo che solo chi sorride sia in grado di sorridere, che solo chi è sereno sia in grado di accogliere senza se e senza ma il proprio nord. Perché pensiamo, in fondo, che se è vero che San Valentino è la festa degli innamorati, allora tutti abbiamo il diritto sentirci amati, d’innamorarci di quelle parole scritte da un ammiratore segreto che forse non si presenterà mai, ma a cui noi riserviamo un sorriso gentile.
Tu pensa che bello varcare la soglia del tuo bar di fiducia e pensare che tra tutte le persone sedute a chiacchierare ci sia qualcuno che il 14 di Febbraio ti ha spedito dieci rose rosse e un po’ d’amore in bianco e nero. Tu pensa che bello star lì sorridente pensando a chi potrebbe essere il tuo ammiratore segreto e accorgerti, ad un certo punto, che non avevi mai alzato lo sguardo dalla tazzina e che magari, per davvero, qualcuno che ti sorride di rimando c’è.

Amami se hai il contratto

Mi chiamo Alberto, ho 34 anni e sono single. Ho passato metà della mia vita a cercare l’amore e l’altra metà a capire perché non l’abbia mai incontrato. Non che mi aspetti di sedermi accanto a Cupido in un bar, chiariamoci, diciamo che non ho mai incontrato nessuno da poter chiamare Amore.
È quasi San Valentino e, come ogni anno, pensavo l’avrei passato scopandomi una di cui non so nemmeno l’indirizzo o di cui non conosco la professione ammettendo di poter consumare a casa sua. Invece ho finalmente deciso che quest’anno io cercherò la donna della mia vita e la troverò. Mi sono spremuto le meningi e ho teorizzato l’amore.
Platone, gli androgini e tutti quei romanticoni da due lire possono andare a quel paese, io ho capito davvero cos’è l’amore in pratica, ora devo solo dimostrare la mia teoria.
Dopo attente selezioni delle mie potenziali compagne, ho finalmente trovato Lei: Cristina. Questa sera la porto a cena e sarà memorabile.
Ho messo il mio vestito migliore, il cappotto nero di cachemire e la mia camicia porta fortuna. Passo a prenderla alle otto, lei scende tre minuti dopo, il tempo di fare le scale. Ottimo, mi piacciono le donne che non si fanno aspettare, che sanno quello che vogliono e quando lo vogliono. Metto un po’ di musica jazz in macchina, se non ami il jazz non puoi amare me e Cristina, dopo pochi secondi, indovina il titolo della canzone. Perfetto.
A cena una tagliata appena scottata, un bicchiere di Barbera Superiore e parliamo di vita, di rapporti e di viaggi. È strano come gli stessi temi possano essere trattati con estenuante superficialità o disarmante profondità e lei, manco a dirlo, mi sbalordisce. È un vulcano incontenibile, idee originali e solide argomentazioni, una razionale fantasia che atterrirebbe un’amante inesperto.
Facciamo due passi, forse cento non ricordo. So che si avvicina il mio momento e non posso non sorridere. Torniamo in macchina, l’accompagno a casa.
Mi chiede con disinvoltura se ho voglia di un bicchiere di whiskey ma non c’è malizia nel suo tono né nel suo sguardo, è sincera e non avrebbe usato scuse se avesse voluto farmi salire solo per andare a letto insieme. Ci sediamo, due bicchieri e un po’ di Talisker. Lei mi sfiora dolcemente la mano, mi piazza le pupille nelle pupille e si avvicina, teneramente, per baciarmi. Mi lascio trasportare dal momento, è quasi sulle mie labbra e chiudo gli occhi, sospiro. Ci siamo quasi, mi sfiora la bocca ed è allora, solo allora, che io mi sposto bruscamente.
Mi guarda interrogativa e mi chiede scusa, che forse aveva frainteso ed invece… ed invece no Cristina, non hai frainteso nulla. È solo che voglio essere chiaro questa volta e tiro fuori dalla tasca del cappotto un foglio.

“è un contratto?” mi chiede lei e annuisco.

La mia teoria è che l’amore sia a tutti gli effetti un contratto. Due persone che vogliono la stessa cosa allo stesso momento, bisogna rispettare delle clausole e ci sono penali da pagare in caso di non rispetto delle stesse. Ovvio no?

Così ho fatto questa bozza di contratto, nei vari paragrafi troverai cosa cerco e cosa offro. Per chiarezza, te lo leggerò e spiegherò personalmente.

La durata della relazione è variabile influendo su di essa, a diverso titolo, i paragrafi successivi.

Cerco una persona che sappia tenermi testa, che sappia abbracciarmi quando ne ho bisogno e mandarmi a stendere se sbaglio. Cerco una persona che mi aiuti a crescere, che mi guardi negli occhi e mi dica che mi ama o che sono un coglione a seconda delle circostanze. Cerco qualcuno che mi stimoli non solo sotto le lenzuola, una persona che sia maestro e allievo contemporaneamente. Una donna che mi parli di Pasolini e della D’Urso con la stessa passione, che sappia dunque affrontare il peso della cultura e la leggerezza del divertissement. Qualcuno che non abbia timore di amarmi non-ostante tutto, nonostante i picchi di felicità e tristezza che l’amore regala. Cerco, in breve, qualcuno che abbia il coraggio di salire con me sulle montagne russe che insieme costruiremo.

Il secondo paragrafo illustra l’offerta, cioè chi sono io.

Maniaco dell’ordine, ossessionato dal divanismo cronico ma ben disposto a prendere aria fresca. Arrogante, cinico, estremamente tenero se guardi bene sotto la barba. Insicuro fin dalla culla, maschero con l’ironia. Amante della buona cucina, disertore di fast food. Viaggio molto, soprattutto con la fantasia. Metodico, rigoroso e a volte noioso, pessimo venditore di me stesso. Ossessionato dalla bellezza, quella interiore in primis.  Estremamente selettivo nei rapporti umani ma chi mi conquista ha il mio cuore per intero. Adulatore segreto di frasi banali, niente è più vero della banalità. Ho sempre amato per colmare mancanze, ora cerco amore per donare abbondanza.

Data e firma.

Ecco qui, niente di speciale. Rimane una parte in bianco da compilare con l’offerta del contraente, con i tratti della personalità di Cristina.

Lei mi guarda con gli occhi sbarrati poi inizia a ridere, ride come una pazza e cade addirittura dalla sedia lamentando crampi agli addominali. Per quanto io mi sforzi e sia cosciente del fatto che dovrei ridere con lei, non ci vedo niente di ironico nella questione. Ho messo nero su bianco l’amore, non mi sembra una cosa folle. Voglio dire ho trovato il modo per andare oltre millenni di fraintendimenti, oltre le seghe mentali da flirt, oltre quelle brutte sorprese che proprio non ti aspettavi, i fulmini a ciel sereno che t’inceneriscono, tanto per chiarire.

Si rialza, si schiarisce la voce e si siede di fronte a me. Sguardo serio, porta i capelli dietro le orecchie e le sue mani quasi sembra stiano disegnando nell’aria.

“Trovo sia una stronzata, semplicemente una stronzata epocale Alberto. Come puoi pensare di racchiudere in poche righe ciò che forse non trova abbastanza spazio nemmeno nell’intero universo? Come puoi descriverti in meno di dieci righe quando nemmeno dopo anni di psicologo puoi affermare di conoscere davvero te stesso? Da avvocato ti risponderei che non firmo per assoluta incertezza del contenuto, da filosofo non firmerei perché è la logica a mancarti. Se fossi una psichiatra ti diagnosticherei senza dubbio qualche disturbo della personalità e ti drogherei con massicce quantità di psicofarmaci. Ma non sono niente di tutto questo, non mentre siedo davanti a te. Mi hai sorpresa Alberto, come nessuno aveva mai fatto prima. Mi hai scossa dal profondo e non so dirti se in bene o in male, so che voglio scoprirlo. Perché forse non incontrerò mai nessun altro nella vita tanto folle da pensare di poter redigere un contratto d’amore e allo stesso tempo tanto coraggioso da sottopormelo per davvero. Io firmo, Alberto, ma sia ben chiaro che non firmo per nessuna delle lettere nere che hai stampato, per nessuna delle parole che hai scritto. Io firmo, Alberto, per tutto il bianco che ti sei tenuto dentro.”

Ci vediamo all’arrivo.

A volte ci poniamo obiettivi che sappiamo di non poter raggiungere, non nei tempi che abbiamo stabilito. A volte pensiamo di poter correre alle olimpiadi saltando l’allenamento perché tanto siamo forti e mica siamo come tutti gli altri che devono sudare per conquistare il traguardo. No, noi pretendiamo di vincere, di non allenarci e di arrivare alla fine con i capelli perfettamente in piega.  Ed il vero problema è che quando ci rendiamo conto che non si può correre la maratona senza aver mai fatto più di due passi di corsa, allora lì ci diamo la colpa del fatto che siamo inetti, che deludiamo innanzitutto noi stessi e ci vergogniamo dei nostri fallimenti.

Ma la verità è forse che il vero errore è il nostro metro di giudizio, troppo lasso sui mezzi e troppo rigido sul fine.

Non siamo supereroi né cretini.

Siamo persone normali ed è questo a farci incazzare, il fatto che non è solo pensando di voler vincere che si vince ma è buttandoci anima e corpo.  E non è facendo la vittima dopo una sconfitta che inizieremo a correre. È facendo un passo alla volta, poi due, poi tre, poi quarantadue chilometri senza mai fermarsi.

Ammettiamolo, tutti speriamo sempre e costantemente nella buona vecchia botta di culo, ma non è quello a soddisfarci fino in fondo. Non è dal caso che si origina il merito ed è solo dal merito, io credo, che si origina la gioia più sincera. Perché quando è solo fortuna ci ridi su, quando te lo sei guadagnato sorridi sereno.

No, lo giuro io non voglio dare lezioni a nessuno, parlo a me stessa ma se uso il “noi” è più facile essere sincera, scavare a fondo e non aver paura di ammettere che sì, ho sbagliato. Perché è ovvio che sia io quella della maratona e sono sempre io quella che dopo il giro del parco ha bisogno di sei bombole d’ossigeno. Per ora.

E può essere che sia una doccia gelata a fartene rendere conto e questo dettaglio, l’acqua fredda, non è metaforico.

Può essere che tu ti senta crollare il mondo addosso e le spalle deboli, troppo deboli per sopportare il peso di una lacrima.

Perché forse anche i supereroi, le persone normali e le macchine da guerra sbagliano, piangono.

E forse anche i supereroi, le persone normali e le macchine da guerra sanno asciugarsi le lacrime ed iniziare a correre per davvero.

Ci vediamo all’arrivo, i capelli disastrosi, la maglia zuppa di sudore e una paralisi sul viso che assomiglia a un sorriso.

La peperonata del compromesso

Forse si diventa grandi quando s’impara a chiudere dolcemente le porte, quando si scende ai primi compromessi, quando impari che “tutto e subito” è solo per i capricciosi. Nasci con l’idea che a compromessi tu non ci scenderai mai, che i tuoi ideali e i tuoi sogni non hanno sfumature, solo bianco o nero.  Poi scopri il grigio e ne diventi dipendente.

Scopri che uscire sbattendo la porta fa molto rumore ma chiude le menti dietro infantili ottusità, non lascia spazio al grigio. E invece accompagnando gentilmente la porta puoi vedere come la luce si mischi alle tenebre, come il freddo e il caldo intiepidiscano, come impari a stare in equilibrio sulla fune.

Crescere significa anche saper incassare aspettando il momento giusto, spegnere il fuoco della rabbia cieca semplicemente aprendo gli occhi.

Crescere significa sapersi assumere le responsabilità dei propri errori e capire che a volte le proprie ragioni vanno fatte valere con i fatti perché valgono più di tante belle, o brutte, parole.

Crescere significa stringere i denti davanti alle difficoltà pur di non cedere perché non puoi cedere. Perché ce la puoi fare e lo sai, caccia in gola la paura e tira fuori gli attributi.

Ho sempre pensato che io a compromessi non ci sarei mai scesa,  che la vendetta è indispensabile per mettersi il cuore in pace perché a me sbattere le porte è sempre piaciuto un sacco.

Ma solo gli stolti non cambiano idea, dicono così.

Solo gli stolti non sanno trovare un punto d’incontro, un punto d’equilibrio.

E ho capito che in realtà la vendetta è dei deboli, è di chi non sa dimostrare a sé stesso di essere forte e si appoggia a parole velenose, a gesti rancorosi pur di togliere il male da dentro di sé per gettarlo sull’altro. E dopo che ti vendichi stai lì, assetato di un gesto di risposta perché la vendetta non basta a se stessa, la vendetta vuole vendetta e nessuno, nessuno ne esce vincitore.

Ma io credo si vinca con se stessi e mai contro gli altri, perché la soddisfazione te la dai da solo quando puoi permetterti di guardarti allo specchio col cuore in pace e il sorriso sul volto perché ce l’hai fatta e l’hai dimostrato all’unica persona che conta: Tu.  Perché in fondo quando sbatti quella porta il rumore t’infastidisce, ed è solo accompagnandola che ti senti leggero.   Ed il mio è uno sfogo bello e buono, lo so. Ma sto imparando ad aprire gli occhi per mettere a tacere la rabbia, a rimpiazzare la paura con la tenacia. Vorrei dire tante belle cose, tipo che devi porgere l’altra guancia ed onorare la madre e il padre ma non sono una moralizzatrice né tanto meno un prete di campagna. Sono solo una ragazzina che sta imparando a digerire i compromessi meglio della peperonata domenicale.

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Ed è già passato un anno.

No, non mi sembra ieri che ho pubblicato il primo articolo, mi sembra sia passato molto più tempo. Non saprei dire quanto, solo molto di più.

Postai “il coraggio di fallire” alle tre di notte per non rimanere delusa scoprendo che nessuno l’aveva letto. Mi svegliai l’indomani con tanti messaggi di complimenti, con molti auguri per l’inizio di qualcosa di nuovo. Rimasi senza parole, avevo dato voce ai miei pensieri ed erano piaciuti.

Scoppiai a ridere, fortissimo. Una risata liberatoria, di quelle che lasciano andare le paure, i timori.

Una sensazione stranissima e bellissima.

Ho imparato a raccontarmi perché in fondo, io credo, tutti abbiamo le stesse paure.

Ho scritto della mia malattia perché volevo abbattere un mio tabù, perché nel bene e nel male è sempre con me.

Ho scritto di storie che non ho vissuto per provare a capire le persone, perché amo interpretare le persone.

Ho inventato di sana pianta per mettere alla prova la mia fantasia.

Non ricomincerei.

Non ricomincerei perché per ricominciare si deve tornare indietro ed invece io voglio andare avanti, lettera dopo lettera, articolo dopo articolo e vedere dove disegnerò la mia strada.

Si perché io mica ci credo a quelle favolette della storia già scritta, del percorso già tracciato. Io vado in giro con un aratro e solco il mio sentiero, bivi compresi.

Mi costruisco anche le trappole in cui, puntualmente, cado.  E quando succede faccio due cose: la prima è ripetermi fino alla nausea una della battute finali de Il cavaliere oscuro, “perché lui può sopportarlo”; la seconda è scrivere.  E mentre scrivo rifletto, analizzo, cambio idea.

Mediamente ogni articolo ha almeno tre inizi differenti. Il primo fa schifo, è freddo. Il secondo non è male ma gli manca qualcosa, non pulsa. Il terzo arriva fino all’ultimo punto ed infatti è pieno di errori, di virgole omesse e parole ripetute.  Ed è questo a piacermi, l’imperfezione.  Niente dà più ispirazione dell’imperfezione.

Chi si fermerebbe mai a pensare davanti ad un muro completamente bianco, pulito, assolutamente perfetto? Nessuno. Ma tu metti un puntino nero, anche piccolissimo, in quel muro e tutti si chiederanno il perché, tutti inizieranno a pensare come sarebbe se non ci fosse, o se ce ne fossero altri. Perché la perfezione è un cerchio chiuso in cui non ci sono spiragli, una figura che basta a se stessa.  L’imperfezione invece ti costringe a trovare un modo per chiudere il cerchio.

Ed io il mio cerchio pensavo di averlo chiuso già da tempo, pensavo che avrei passato la vita in tribunale lottando per la giustizia. Invece mi sono ritrovata con un biglietto di sola andata per Parigi, un computer con i tasti consumati, un minestrone in testa che potrei vendere la ricetta alla Findus.

Così adesso, dopo appena un anno, vago col mio aratro cercando il vento, fiutando paesi che non pensavo esistessero sulla mappa del mio percorso.

Così adesso, dopo appena un anno, sto imparando cosa davvero significhi il coraggio di fallire, cosa significhi prendere un treno senza conoscere la destinazione ma, soprattutto, sto imparando che tra vent’anni  a quella telefonata proprio non so come risponderò.

I soliti buoni propositi

Mi piace questa tradizione dei buoni propositi per l’anno nuovo. In pratica, dopo la lettera a Babbo Natale, uno deve fare la lista di ciò che intende fare nel nuovo anno. Tipo un business plan della propria vita.

Investirò di più nei sentimenti, metterò in cassa integrazione lo shopping, investirò su amici, vino e cibo buono.

Mi autotasserò ogni volta che dirò una parolaccia ed userò quel tesoretto per farmi una vacanza in barca.

Ottimizzerò la produzione studiando di più e diminuendo le pause caffè ottenendo così un guadagno al netto della soddisfazione pari a circa millecento sorrisi in più al mese.

Taglierò il tempo perso a farmi problemi inutili investendo un paio d’ore a settimana dedicate alla ricerca delle risposte alle grandi domande sull’universo.

Comprerò dunque un bel cappotto per prepararmi al nobel per la matematica che dubito vincerò. E non lo vincerò perché un’amante di Alfred Nobel se la faceva allegramente con un mago del 2+2, mister Magnus Gustaf Mittag-Leffler, e per colpa della sua bacchetta magica io non potrò mai diventare la prima donna a vincere il nobel per la matematica.

Mai mischiare sesso e affari, sempre detto.

Assumerò nuovi atteggiamenti proponendo una politica aziendale di gentilezza con il prossimo, promuoverò progetti di team building con week end al lago e in montagna.

Metterò l’arte al primo posto per far sì che il lavoro s’ispiri sempre alla bellezza, mi batterò per la vittoria del buon gusto sul pacchiano.

Istituirò un fondo per far fronte agli imprevisti, miele in caso d’amore, corde vocali nuove in caso di  perdita di voce post-concerto, scarpe nuove nel caso consumassi le suole durante viaggi in posti ancora sconosciuti.

Farò dell’ottimismo una religione senza dimenticare di prendere un paracadute, farò meno teatrini quando mi arrabbio ed andrò più sovente a teatro.

Creerò un’ora alla settimana dedicata alla ricerca di cose sconosciute puntando a diventare massima esperta della teoria delle stringhe.

Studierò il tedesco per non sfigurare all’Oktoberfest e per rendere finalmente felice mia Nonna trovando un biondone con dei bei denti. Perché avere dei bei denti è tutto per mia Nonna.

Che poi spero vivamente che mia Nonna non stia leggendo perché il prossimo buon proposito, l’unico che tutti abbiamo, non è quello di essere felici da impazzire, non è quello di fare un bagno nei gettoni d’oro, non è quello di diventare capi del mondo. No.

Il prossimo ed ultimo augurio è terra a terra, è ritorno alle origini, è saper riconoscere che non si può sempre solo guardare in alto, bisogna anche avere il coraggio di abbassare lo sguardo ed osservare il proprio ombelico. Il mio ultimo buon proposito è dunque imparare a lasciarmi andare di più, smettere di fare il ghiacciolo anche ad agosto.

Il mio ultimo buon proposito, in sostanza, è fare più sesso.

Si ringrazia il ministero del Lavoro per il sostegno al progetto “Più sesso per un anno di successo”

Popolè atto primo.

E così è la vigilia di Natale, la prima edizione di Popolè si è ormai conclusa e tutti già pensiamo ai regali, all’anno nuovo e a quello che il futuro ha in serbo per noi.

Che poi perché si dica in serbo non lo so ma di sicuro per la traduzione chiamerò mia cugina che lei in serbo ci ha preso la laurea.

Sarebbe inutile fare un discorso tipo “chi l’avrebbe mai detto, da compagni di liceo a collaboratori per la Nostra festa d’arte”. E infatti ho deciso di non farlo.

Sarebbe noioso iniziare a fare un elenco di ringraziamenti che, per quanto pieni di significato, al lettore risulterebbero sterili e ridondanti.

Ed è dunque evidente che mi trovo in difficoltà, che non so bene cosa scrivere, che non so bene come iniziare anche se in realtà ho già iniziato. Diciamo che non so come continuare.

Propongo un brindisi e da quanti ne farò finiremo tutti ubriachi dopo poche righe, ma è Natale e le bollicine fanno sempre piacere.

Un brindisi a Simone che ha avuto l’idea, che faceva telefonate all’una di notte per parlare del minimo dettaglio, che dopo questo festival ha due borse sotto gli occhi che neanche Gucci, che ci siamo urlati addosso come due Scorpioni con Saturno contro finendo con un sorriso ed una pacca sulla spalla. Perché il vero motivo per cui si litiga è la magia di quando si fa pace. E perché siamo due teste calde.

Un brindisi a chi ci ha messo il cuore, fosse dalla platea o dal palco, dalle quinte al bar, dalla cassa alla cucina.

Un brindisi a chi ha fatto critiche costruttive, agli errori e alla voglia d’imparare, un brindisi alla magia che si è creata tra i muri del piccolo teatro Giraudi.

Un brindisi al pubblico che pubblico non era, alle vostre risate e alle vostre lacrime, un brindisi soprattutto alle emozioni che abbiamo mostrato senza vergogna.

Un brindisi a chi ha già difficoltà a mettere a fuoco le righe, suvvia siamo in Piemonte, il vino ci scorre dentro più del sangue. Se la gioca con l’Americano Cocchi a dirla tutta.

Lo ammetto, ho barato. Ho detto che non avrei fatto ringraziamenti ed invece li ho semplicemente mascherati con un “brindisi”.

È che mi hanno insegnato che un grazie non costa nulla e regala un sorriso, è che nonostante io stia raramente in silenzio, oltre ad un grazie non ho altro da dire.

Anzi, una cosa ce l’avrei.

Arrivederci alla seconda edizione.

Abbiamo festeggiato l’arte e non abbiamo nessuna intenzione di fermarci.

La Puta Vida

La Puta Vida è verità.

La Puta Vida è Papo che si mette in scena, che si scinde in due personaggi, lo ying e lo yang di se stesso senza che ci sia un bianco, senza che ci sia un nero. E bada bene che un nero in scena c’è ma è solo trucco, è solo una metafora.

La Puta Vida è la metafora del conflitto interiore, del nostro angelo ed il nostro Lucifero che si scontrano, ma Lucifero era l’angelo più bello se non erro.

La Puta Vida è un eroinomane senza un occhio ed un bravo ragazzo che ha perso la speranza.

La Puta Vida è ciò che non ti aspetti ed è questo a renderlo reale.

La Puta Vida è nuda, volgare, è un ago che ti sazia e la vita che ti svuota. È bestemmiare contro il Dio della propria vita, contro se stessi. È darsi un’altra occasione, quella che saprai cogliere.

La Puta Vida è violenza al servizio della Verità, della Vita con la V maiuscola.

La Puta Vida sei tu che devi scegliere da che parte stare, sei tu che non capisci chi abbia ragione e chi torto, cosa sia giusto e cosa sbagliato. È un viaggio in una vita di cui non conosci nulla ma che alla fine se togli il trucco, i costumi di scena, le luci rosse, capisci che La Puta Vida sono i tuoi errori, le tue scelte sbagliate, i tuoi obiettivi messi a nudo in un testo teatrale. Acqua fredda che ti paralizza, nero che ti copre, un proiettile ben conficcato, La Puta Vida è la scheggia nell’occhio che fa vedere il fuoco dentro.

Che poi se vogliamo dirla tutta a me ha fatto proprio incazzare sta Puta Vida. M’ha fatto incazzare che io di solito ci prendo con le trame, che io di solito ho talento nello scovare l’assassino. E qui pensavo di aver capito tutto, roba che a metà spettacolo ho sorriso dicendo “va bè dai è la favoletta di strada” e invece ti ribalta, ti sconvolge, diventa imprevedibile e alla fine ti senti quasi in colpa per aver pensato che potesse essere banale, scontato. Ma la Puta Vida non fa sconti.

Randy e Ragazzo di collina camminano tra il pubblico, ti fanno entrare in scena come ad ammonirti, in scena ci sei soprattutto tu bello mio. E su quella scena mi sono presa anch’io quel giorno in più per capire, in fondo, da che parte stare.

Il palco al pubblico

Pochi posti, tutti vicini e sedie anche sul palco che quasi senti il puzzo di sudore degli artisti, che quasi diventi tu parte dello spettacolo. Stai seduto e guardi avanti, luci soffuse, una ragazza al piano. È minuta e graziosa, un bustino di pelle le dà un’aria grintosa anche se la vera forza la scatena quando accarezza il pianoforte, quando insieme alle corde vocali fa vibrare quelle che credevi ormai sopite, le tue. Lorenzo scende tra il pubblico mentre suona un banjo ed una batteria, mani e piedi in armonia con la sua voce, con i tuoi sorrisi. Arriva un tizio che si alza e non si sa da dove sbuchi, che si siede di fronte al microfono. Prende una chitarra e nemmeno lui sa quello che sta facendo, o più probabilmente lo sa fin troppo bene. “Io voglio vivere nudo, far prendere aria ai talloni” dice. Io dico che sei un fenomeno, caro Tano. Le risate si uniscono alle note che si fondono con le parole che ti frullano il cervello che ti fan venire i crampi agli addominali e ai muscoli facciali, che finisce la canzone e pensi che non riesci a pensare perché ancora stai ridendo e dici non ci credo, non ci credo che si è spogliato uscendo. Silenzioso come un gatto entra un ragazzo ricciolino, un altro Lorenzo, si siede al piano ed inizia una sonata classica, non chiedetemi di chi che se poi sbaglio mi vergogno. E poi di chi fosse che importanza ha? Ciò che conta è che ti arriva dentro come una carezza e ti culla dolcemente mentre ti lasci andare al punto che ti accorgi che ti sei commosso quando ormai il tuo mascara è completamente colato. Le mani volano su quei tasti come fossero create per stare lì sopra, è piuma nell’aria, è poesia in 88 tasti. Ma subito di corsa mentre stai dando un fazzoletto al tuo vicino si aggiungono un bassista ed un batterista e caro Baricco io in culo anche al jazz non lo dirò mai. Di nuovo sorridi e fluttui leggero tra una corda, una cassa e dei tasti. Non pensi, ascolti solo. Chiudi gli occhi e le note quasi si muovono davvero, le puoi toccare se vuoi. È di nuovo Chiara e son di nuovo lacrime ed un altro fazzoletto al tuo vicino che poteva anche portarseli da casa ed è di nuovo Lorenzo e di nuovo ridi a crepapelle abbracciando il vicino che ti scrocca i fazzoletti ed è di nuovo Tano e questa volta sei sconcertata, prima mi parli di nudo e ora d’amore, com’è che le mie emozioni non riescono a star ferme? Com’è che andiamo in alto e di colpo mi scaraventate in basso? Tutti in piedi, signori. Entrano gli Eugenio in Via Di Gioia, entrano questi personaggi che han dei musi simpatici, che sono autentici. Via le sedie tutti a ballare e io, confesso, io proprio non riesco a fare passi troppo complessi. È che il multitasking non è la mia caratteristica predominante e non posso godermi la musica, ridere fino alle lacrime e fare grands plies allo stesso tempo. Poi sono goffa di natura, il mio vicino invece non ha i fazzoletti ma quando balla sembra Bolle e lo perdo tra la folla, mi perdo tra la folla. Prendo sotto braccio degli sconosciuti e la mamma mi guarda ma non mi dice più di non dare confidenza a chi non conosco che solo scoprendo il nuovo si diventa grandi, ballo con un’amica, con la signora anziana che a fatica si regge in piedi ma che cosa ce ne frega se dobbiamo vivere facciamolo ballando col sorriso, prendo sotto braccio quella che pensavo fosse frigida e invece le bastano un paio di canzoni per muoversi leggiadra.

Mi fermo.

Mi nascondo dietro una quinta ad osservare. Il bianco dei vostri denti è accecante, l’energia dei nostri corpi è contagiosa e penso che abbiamo davvero partorito qualcosa di nuovo, autorale, popolare. L’ho fatto io, l’hai fatto tu, lo abbiamo fatto noi tutti battendo le mani a ritmo e regalando fazzoletti a chi, come noi, sa emozionarsi. Sembra banale, ogni cosa che scrivo su cos’ho provato durante il concerto d’apertura di Popolè sembra banale. Perché sarebbe dare corpo a qualcosa che un corpo non ce l’ha, sarebbe mettere nero su bianco sensazioni che nemmeno io ho ben capito cosa fossero, che nemmeno io ormai riesco più a scindere perché se dovessi riassumere in una parola il Nostro concerto, userei senza dubbio centrifuga. È stato rapido, intenso, è stato essere alla cima e al fondo del cestello nello stesso tempo, è stato girare intorno ad un punto fermo. Tu, io, noi, il popolo. È stato vedere i sorrisi durante l’aperitivo, è stato saziare l’animo in sala e il corpo subito fuori. È stato tutto e sarà ancora di più perché, signori miei, avete visto solo l’inizio.