Amami se hai il contratto

Mi chiamo Alberto, ho 34 anni e sono single. Ho passato metà della mia vita a cercare l’amore e l’altra metà a capire perché non l’abbia mai incontrato. Non che mi aspetti di sedermi accanto a Cupido in un bar, chiariamoci, diciamo che non ho mai incontrato nessuno da poter chiamare Amore.
È quasi San Valentino e, come ogni anno, pensavo l’avrei passato scopandomi una di cui non so nemmeno l’indirizzo o di cui non conosco la professione ammettendo di poter consumare a casa sua. Invece ho finalmente deciso che quest’anno io cercherò la donna della mia vita e la troverò. Mi sono spremuto le meningi e ho teorizzato l’amore.
Platone, gli androgini e tutti quei romanticoni da due lire possono andare a quel paese, io ho capito davvero cos’è l’amore in pratica, ora devo solo dimostrare la mia teoria.
Dopo attente selezioni delle mie potenziali compagne, ho finalmente trovato Lei: Cristina. Questa sera la porto a cena e sarà memorabile.
Ho messo il mio vestito migliore, il cappotto nero di cachemire e la mia camicia porta fortuna. Passo a prenderla alle otto, lei scende tre minuti dopo, il tempo di fare le scale. Ottimo, mi piacciono le donne che non si fanno aspettare, che sanno quello che vogliono e quando lo vogliono. Metto un po’ di musica jazz in macchina, se non ami il jazz non puoi amare me e Cristina, dopo pochi secondi, indovina il titolo della canzone. Perfetto.
A cena una tagliata appena scottata, un bicchiere di Barbera Superiore e parliamo di vita, di rapporti e di viaggi. È strano come gli stessi temi possano essere trattati con estenuante superficialità o disarmante profondità e lei, manco a dirlo, mi sbalordisce. È un vulcano incontenibile, idee originali e solide argomentazioni, una razionale fantasia che atterrirebbe un’amante inesperto.
Facciamo due passi, forse cento non ricordo. So che si avvicina il mio momento e non posso non sorridere. Torniamo in macchina, l’accompagno a casa.
Mi chiede con disinvoltura se ho voglia di un bicchiere di whiskey ma non c’è malizia nel suo tono né nel suo sguardo, è sincera e non avrebbe usato scuse se avesse voluto farmi salire solo per andare a letto insieme. Ci sediamo, due bicchieri e un po’ di Talisker. Lei mi sfiora dolcemente la mano, mi piazza le pupille nelle pupille e si avvicina, teneramente, per baciarmi. Mi lascio trasportare dal momento, è quasi sulle mie labbra e chiudo gli occhi, sospiro. Ci siamo quasi, mi sfiora la bocca ed è allora, solo allora, che io mi sposto bruscamente.
Mi guarda interrogativa e mi chiede scusa, che forse aveva frainteso ed invece… ed invece no Cristina, non hai frainteso nulla. È solo che voglio essere chiaro questa volta e tiro fuori dalla tasca del cappotto un foglio.

“è un contratto?” mi chiede lei e annuisco.

La mia teoria è che l’amore sia a tutti gli effetti un contratto. Due persone che vogliono la stessa cosa allo stesso momento, bisogna rispettare delle clausole e ci sono penali da pagare in caso di non rispetto delle stesse. Ovvio no?

Così ho fatto questa bozza di contratto, nei vari paragrafi troverai cosa cerco e cosa offro. Per chiarezza, te lo leggerò e spiegherò personalmente.

La durata della relazione è variabile influendo su di essa, a diverso titolo, i paragrafi successivi.

Cerco una persona che sappia tenermi testa, che sappia abbracciarmi quando ne ho bisogno e mandarmi a stendere se sbaglio. Cerco una persona che mi aiuti a crescere, che mi guardi negli occhi e mi dica che mi ama o che sono un coglione a seconda delle circostanze. Cerco qualcuno che mi stimoli non solo sotto le lenzuola, una persona che sia maestro e allievo contemporaneamente. Una donna che mi parli di Pasolini e della D’Urso con la stessa passione, che sappia dunque affrontare il peso della cultura e la leggerezza del divertissement. Qualcuno che non abbia timore di amarmi non-ostante tutto, nonostante i picchi di felicità e tristezza che l’amore regala. Cerco, in breve, qualcuno che abbia il coraggio di salire con me sulle montagne russe che insieme costruiremo.

Il secondo paragrafo illustra l’offerta, cioè chi sono io.

Maniaco dell’ordine, ossessionato dal divanismo cronico ma ben disposto a prendere aria fresca. Arrogante, cinico, estremamente tenero se guardi bene sotto la barba. Insicuro fin dalla culla, maschero con l’ironia. Amante della buona cucina, disertore di fast food. Viaggio molto, soprattutto con la fantasia. Metodico, rigoroso e a volte noioso, pessimo venditore di me stesso. Ossessionato dalla bellezza, quella interiore in primis.  Estremamente selettivo nei rapporti umani ma chi mi conquista ha il mio cuore per intero. Adulatore segreto di frasi banali, niente è più vero della banalità. Ho sempre amato per colmare mancanze, ora cerco amore per donare abbondanza.

Data e firma.

Ecco qui, niente di speciale. Rimane una parte in bianco da compilare con l’offerta del contraente, con i tratti della personalità di Cristina.

Lei mi guarda con gli occhi sbarrati poi inizia a ridere, ride come una pazza e cade addirittura dalla sedia lamentando crampi agli addominali. Per quanto io mi sforzi e sia cosciente del fatto che dovrei ridere con lei, non ci vedo niente di ironico nella questione. Ho messo nero su bianco l’amore, non mi sembra una cosa folle. Voglio dire ho trovato il modo per andare oltre millenni di fraintendimenti, oltre le seghe mentali da flirt, oltre quelle brutte sorprese che proprio non ti aspettavi, i fulmini a ciel sereno che t’inceneriscono, tanto per chiarire.

Si rialza, si schiarisce la voce e si siede di fronte a me. Sguardo serio, porta i capelli dietro le orecchie e le sue mani quasi sembra stiano disegnando nell’aria.

“Trovo sia una stronzata, semplicemente una stronzata epocale Alberto. Come puoi pensare di racchiudere in poche righe ciò che forse non trova abbastanza spazio nemmeno nell’intero universo? Come puoi descriverti in meno di dieci righe quando nemmeno dopo anni di psicologo puoi affermare di conoscere davvero te stesso? Da avvocato ti risponderei che non firmo per assoluta incertezza del contenuto, da filosofo non firmerei perché è la logica a mancarti. Se fossi una psichiatra ti diagnosticherei senza dubbio qualche disturbo della personalità e ti drogherei con massicce quantità di psicofarmaci. Ma non sono niente di tutto questo, non mentre siedo davanti a te. Mi hai sorpresa Alberto, come nessuno aveva mai fatto prima. Mi hai scossa dal profondo e non so dirti se in bene o in male, so che voglio scoprirlo. Perché forse non incontrerò mai nessun altro nella vita tanto folle da pensare di poter redigere un contratto d’amore e allo stesso tempo tanto coraggioso da sottopormelo per davvero. Io firmo, Alberto, ma sia ben chiaro che non firmo per nessuna delle lettere nere che hai stampato, per nessuna delle parole che hai scritto. Io firmo, Alberto, per tutto il bianco che ti sei tenuto dentro.”

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Ed è già passato un anno.

No, non mi sembra ieri che ho pubblicato il primo articolo, mi sembra sia passato molto più tempo. Non saprei dire quanto, solo molto di più.

Postai “il coraggio di fallire” alle tre di notte per non rimanere delusa scoprendo che nessuno l’aveva letto. Mi svegliai l’indomani con tanti messaggi di complimenti, con molti auguri per l’inizio di qualcosa di nuovo. Rimasi senza parole, avevo dato voce ai miei pensieri ed erano piaciuti.

Scoppiai a ridere, fortissimo. Una risata liberatoria, di quelle che lasciano andare le paure, i timori.

Una sensazione stranissima e bellissima.

Ho imparato a raccontarmi perché in fondo, io credo, tutti abbiamo le stesse paure.

Ho scritto della mia malattia perché volevo abbattere un mio tabù, perché nel bene e nel male è sempre con me.

Ho scritto di storie che non ho vissuto per provare a capire le persone, perché amo interpretare le persone.

Ho inventato di sana pianta per mettere alla prova la mia fantasia.

Non ricomincerei.

Non ricomincerei perché per ricominciare si deve tornare indietro ed invece io voglio andare avanti, lettera dopo lettera, articolo dopo articolo e vedere dove disegnerò la mia strada.

Si perché io mica ci credo a quelle favolette della storia già scritta, del percorso già tracciato. Io vado in giro con un aratro e solco il mio sentiero, bivi compresi.

Mi costruisco anche le trappole in cui, puntualmente, cado.  E quando succede faccio due cose: la prima è ripetermi fino alla nausea una della battute finali de Il cavaliere oscuro, “perché lui può sopportarlo”; la seconda è scrivere.  E mentre scrivo rifletto, analizzo, cambio idea.

Mediamente ogni articolo ha almeno tre inizi differenti. Il primo fa schifo, è freddo. Il secondo non è male ma gli manca qualcosa, non pulsa. Il terzo arriva fino all’ultimo punto ed infatti è pieno di errori, di virgole omesse e parole ripetute.  Ed è questo a piacermi, l’imperfezione.  Niente dà più ispirazione dell’imperfezione.

Chi si fermerebbe mai a pensare davanti ad un muro completamente bianco, pulito, assolutamente perfetto? Nessuno. Ma tu metti un puntino nero, anche piccolissimo, in quel muro e tutti si chiederanno il perché, tutti inizieranno a pensare come sarebbe se non ci fosse, o se ce ne fossero altri. Perché la perfezione è un cerchio chiuso in cui non ci sono spiragli, una figura che basta a se stessa.  L’imperfezione invece ti costringe a trovare un modo per chiudere il cerchio.

Ed io il mio cerchio pensavo di averlo chiuso già da tempo, pensavo che avrei passato la vita in tribunale lottando per la giustizia. Invece mi sono ritrovata con un biglietto di sola andata per Parigi, un computer con i tasti consumati, un minestrone in testa che potrei vendere la ricetta alla Findus.

Così adesso, dopo appena un anno, vago col mio aratro cercando il vento, fiutando paesi che non pensavo esistessero sulla mappa del mio percorso.

Così adesso, dopo appena un anno, sto imparando cosa davvero significhi il coraggio di fallire, cosa significhi prendere un treno senza conoscere la destinazione ma, soprattutto, sto imparando che tra vent’anni  a quella telefonata proprio non so come risponderò.

La Puta Vida

La Puta Vida è verità.

La Puta Vida è Papo che si mette in scena, che si scinde in due personaggi, lo ying e lo yang di se stesso senza che ci sia un bianco, senza che ci sia un nero. E bada bene che un nero in scena c’è ma è solo trucco, è solo una metafora.

La Puta Vida è la metafora del conflitto interiore, del nostro angelo ed il nostro Lucifero che si scontrano, ma Lucifero era l’angelo più bello se non erro.

La Puta Vida è un eroinomane senza un occhio ed un bravo ragazzo che ha perso la speranza.

La Puta Vida è ciò che non ti aspetti ed è questo a renderlo reale.

La Puta Vida è nuda, volgare, è un ago che ti sazia e la vita che ti svuota. È bestemmiare contro il Dio della propria vita, contro se stessi. È darsi un’altra occasione, quella che saprai cogliere.

La Puta Vida è violenza al servizio della Verità, della Vita con la V maiuscola.

La Puta Vida sei tu che devi scegliere da che parte stare, sei tu che non capisci chi abbia ragione e chi torto, cosa sia giusto e cosa sbagliato. È un viaggio in una vita di cui non conosci nulla ma che alla fine se togli il trucco, i costumi di scena, le luci rosse, capisci che La Puta Vida sono i tuoi errori, le tue scelte sbagliate, i tuoi obiettivi messi a nudo in un testo teatrale. Acqua fredda che ti paralizza, nero che ti copre, un proiettile ben conficcato, La Puta Vida è la scheggia nell’occhio che fa vedere il fuoco dentro.

Che poi se vogliamo dirla tutta a me ha fatto proprio incazzare sta Puta Vida. M’ha fatto incazzare che io di solito ci prendo con le trame, che io di solito ho talento nello scovare l’assassino. E qui pensavo di aver capito tutto, roba che a metà spettacolo ho sorriso dicendo “va bè dai è la favoletta di strada” e invece ti ribalta, ti sconvolge, diventa imprevedibile e alla fine ti senti quasi in colpa per aver pensato che potesse essere banale, scontato. Ma la Puta Vida non fa sconti.

Randy e Ragazzo di collina camminano tra il pubblico, ti fanno entrare in scena come ad ammonirti, in scena ci sei soprattutto tu bello mio. E su quella scena mi sono presa anch’io quel giorno in più per capire, in fondo, da che parte stare.

Il palco al pubblico

Pochi posti, tutti vicini e sedie anche sul palco che quasi senti il puzzo di sudore degli artisti, che quasi diventi tu parte dello spettacolo. Stai seduto e guardi avanti, luci soffuse, una ragazza al piano. È minuta e graziosa, un bustino di pelle le dà un’aria grintosa anche se la vera forza la scatena quando accarezza il pianoforte, quando insieme alle corde vocali fa vibrare quelle che credevi ormai sopite, le tue. Lorenzo scende tra il pubblico mentre suona un banjo ed una batteria, mani e piedi in armonia con la sua voce, con i tuoi sorrisi. Arriva un tizio che si alza e non si sa da dove sbuchi, che si siede di fronte al microfono. Prende una chitarra e nemmeno lui sa quello che sta facendo, o più probabilmente lo sa fin troppo bene. “Io voglio vivere nudo, far prendere aria ai talloni” dice. Io dico che sei un fenomeno, caro Tano. Le risate si uniscono alle note che si fondono con le parole che ti frullano il cervello che ti fan venire i crampi agli addominali e ai muscoli facciali, che finisce la canzone e pensi che non riesci a pensare perché ancora stai ridendo e dici non ci credo, non ci credo che si è spogliato uscendo. Silenzioso come un gatto entra un ragazzo ricciolino, un altro Lorenzo, si siede al piano ed inizia una sonata classica, non chiedetemi di chi che se poi sbaglio mi vergogno. E poi di chi fosse che importanza ha? Ciò che conta è che ti arriva dentro come una carezza e ti culla dolcemente mentre ti lasci andare al punto che ti accorgi che ti sei commosso quando ormai il tuo mascara è completamente colato. Le mani volano su quei tasti come fossero create per stare lì sopra, è piuma nell’aria, è poesia in 88 tasti. Ma subito di corsa mentre stai dando un fazzoletto al tuo vicino si aggiungono un bassista ed un batterista e caro Baricco io in culo anche al jazz non lo dirò mai. Di nuovo sorridi e fluttui leggero tra una corda, una cassa e dei tasti. Non pensi, ascolti solo. Chiudi gli occhi e le note quasi si muovono davvero, le puoi toccare se vuoi. È di nuovo Chiara e son di nuovo lacrime ed un altro fazzoletto al tuo vicino che poteva anche portarseli da casa ed è di nuovo Lorenzo e di nuovo ridi a crepapelle abbracciando il vicino che ti scrocca i fazzoletti ed è di nuovo Tano e questa volta sei sconcertata, prima mi parli di nudo e ora d’amore, com’è che le mie emozioni non riescono a star ferme? Com’è che andiamo in alto e di colpo mi scaraventate in basso? Tutti in piedi, signori. Entrano gli Eugenio in Via Di Gioia, entrano questi personaggi che han dei musi simpatici, che sono autentici. Via le sedie tutti a ballare e io, confesso, io proprio non riesco a fare passi troppo complessi. È che il multitasking non è la mia caratteristica predominante e non posso godermi la musica, ridere fino alle lacrime e fare grands plies allo stesso tempo. Poi sono goffa di natura, il mio vicino invece non ha i fazzoletti ma quando balla sembra Bolle e lo perdo tra la folla, mi perdo tra la folla. Prendo sotto braccio degli sconosciuti e la mamma mi guarda ma non mi dice più di non dare confidenza a chi non conosco che solo scoprendo il nuovo si diventa grandi, ballo con un’amica, con la signora anziana che a fatica si regge in piedi ma che cosa ce ne frega se dobbiamo vivere facciamolo ballando col sorriso, prendo sotto braccio quella che pensavo fosse frigida e invece le bastano un paio di canzoni per muoversi leggiadra.

Mi fermo.

Mi nascondo dietro una quinta ad osservare. Il bianco dei vostri denti è accecante, l’energia dei nostri corpi è contagiosa e penso che abbiamo davvero partorito qualcosa di nuovo, autorale, popolare. L’ho fatto io, l’hai fatto tu, lo abbiamo fatto noi tutti battendo le mani a ritmo e regalando fazzoletti a chi, come noi, sa emozionarsi. Sembra banale, ogni cosa che scrivo su cos’ho provato durante il concerto d’apertura di Popolè sembra banale. Perché sarebbe dare corpo a qualcosa che un corpo non ce l’ha, sarebbe mettere nero su bianco sensazioni che nemmeno io ho ben capito cosa fossero, che nemmeno io ormai riesco più a scindere perché se dovessi riassumere in una parola il Nostro concerto, userei senza dubbio centrifuga. È stato rapido, intenso, è stato essere alla cima e al fondo del cestello nello stesso tempo, è stato girare intorno ad un punto fermo. Tu, io, noi, il popolo. È stato vedere i sorrisi durante l’aperitivo, è stato saziare l’animo in sala e il corpo subito fuori. È stato tutto e sarà ancora di più perché, signori miei, avete visto solo l’inizio.

Manifesto per te.

Oggi non lavoro, oggi non studio, oggi manifesto per te.

Tu mi dirai che ascolto troppo quel gruppo di vecchi, i Bandabardò, e hai ragione.

Se mi rilasso? In realtà non saprei dirti, è troppo tempo che non lo faccio.

Scendo in piazza con i cartelloni, ci scrivo “conosci te stesso”.

Un bel gioco dura poco ed il marketing, in amore, non so a quanto serva.

Anzi guarda in questa manifestazione io ti faccio psicologia inversa, ti sbatto in faccia i miei difetti e tu scoprirai di amarli tutti, uno ad uno, come io faccio coi tuoi.

Sarebbe troppo facile dirti perché dovresti amarmi, sarebbe troppo ermetico un elenco vuoto.

E quindi eccoti qui il perché tu dovresti ridermi in faccia, ed eccoti qui perché non lo farai.

Non sono testarda, devi solo usare le parole giuste per convincermi a cambiare idea.

Amo litigare, proprio mi piace a livello viscerale. È che credo che la rabbia elimini ogni maschera, quando perdi il controllo riveli chi sei. Ed io mi sono innamorata perdutamente dei tuoi nervosismi. È bellissimo vedere il fuoco che nasce piano piano fino a che non riesci più a tenerlo, fino a quando i tuoi occhioni si accendono di luce pulsante anche se il meglio, si sa, è fare pace.

Sto sempre sulla difensiva. Da grande stratega quale sei, tu stesso m’insegnasti che la miglior difesa è l’attacco, chiediti ora perché a volte sento il bisogno di essere velenosa.

Me ne vado. Quando ho paura, me ne vado. È strano sai, mi capita solo con le persone. Sul lavoro per me esistono solo sfide, è quando incrocio sguardi cupi che inizio a tremare.

Non bevo vino scadente. Se ci pensi è un bel problema, però proprio non ce la faccio, piuttosto ceno ad acqua.

I calzini spaiati sono all’ordine del giorno. Neanche il mio cassetto dell’intimo riesce a sostenere una relazione stabile.

Ti amo. Questo poi è proprio il difetto peggiore, quello che sono anni che t’imponi di non vedere, di superare, d’ignorare. Io ti giuro che litigo un decimo di quanto facevo un tempo, ho imparato a fidarmi delle persone anziché partire prevenuta, le mie gambe non hanno più voglia di correre senza contare che ho, addirittura, bevuto un vino che anche per cucinare sarebbe stato imbarazzante.

Non ho mai smesso di amarti.

Sono qui, oggi, davanti alla tua università aspettando che tu esca da lezione e ho questo cartello in mano.

Conosci te stesso.

Mi sono organizzata, ho uno zaino da campeggio con tenda, fornellino e viveri in abbondanza per una settimana.

Io sto qui e non mi muovo. Se piove forse mi prenderò un raffreddore ma non m’importa perché mi si gonfieranno i capelli e tu potrai prendermi in giro dicendo che sembro una pecora pronta per essere tosata. Amo quando mi prendi in giro.

Conosci te stesso e scava a fondo, scava come questo chiodo tra i san pietrini.

Io, oggi e domani, sono qui ad aspettarti.

Manifesto per il tuo amore, questo è il manifesto del mio amore.

Verrà quel giorno.

Verrà quel giorno e ti guarderò negli occhi.

Tu già conoscerai le mie parole così che potrò tacere e cingerti tra le mie braccia finalmente sicure.

Verrà quel giorno e chiuderemo le palpebre guardando il futuro.

Mi stringerai, la mia aria sarà la tua aria così che consumeremo tutto l’ossigeno restando inspiegabilmente vivi, più vivi che mai.

Verrà quel giorno e indosserò un vestito verde, una primavera anche in pieno autunno.

Guarderemo quei paesaggi di cui siamo innamorati, con cui ci siamo innamorati.

Non so dirti quando, forse tra un’ora, forse tra dieci anni. Ma tu non disperare e io non dispererò.

Tu non smettere di crederci ed io ti seguirò.

L’avresti mai detto? Ora, ti dico, sì.

Prenditi il tuo tempo, concedimi il mio tempo. Lasciami riordinare casa prima di accoglierti, ti lascio scegliere i vestiti prima di giungere.

Sai che odio le mele, dunque ti dico che siamo due metà della stessa fragola.
Una fragola selvatica con tutti quei semini e il suo sapore che, se colta prematuramente, ti stordisce per l’acidità.

Ed è per questo che ancora la osserviamo, perchè abbiamo imparato ad aspettare la dolcezza della maturità.

Ed è per questo che morderla sarà tremendamente rosso, tremendamente bello.

Un frutto spontaneo non soggetto a regole.

E noi le regole le abbiamo infrante una ad una.

Verrà quel giorno ed è già un po’ più vicino.

Ancora.

Caro Amore,

spero che la tua giornata a lavoro sia andata bene. Spero che tu non ti sia stressato troppo, spero che tu non abbia inveito contro gli automobilisti che non scattano un millesimo di secondo dopo il verde come fai sempre.

Mentre leggi questa lettera sentirai un profumo dalla cucina, sono le lasagne che ti ho lasciato in forno. Le ho fatte con le mie mani, le ho cucinate per te.

Sarai entrato in casa chiamandomi e, non sentendo risposta, avrai pensato che sono ancora alla mia stupida lezione di yoga.

Non avrai notato che ho tolto il quadro della ballerina dal soggiorno. Bene, ora che hai guardato il muro avrai visto il tuo poster preferito con cui ho colmato il vuoto di quella parete.

Oggi non sono andata a lavoro, ho preso qualche giorno di ferie. Mi dispiace per le sbavature d’inchiostro su questa lettera, è che sono un po’ emozionata.

Ho deciso che non ti sposo. Né ora né mai.

Ho già portato via tutte le mie cose, non preoccuparti. Non che tu l’abbia mai fatto, s’intende, ma lo dico nel caso decidessi di iniziare a farlo oggi. So badare a me stessa, e lo sai bene.

Ora ho un dubbio atroce nella testa: cosa starai pensando della mia frase “ho deciso che non ti sposo”?  ho due ipotesi a riguardo: nella prima tu stai ridendo della grossa pensando che sia una delle mie solite crisi, di quando mi sento confusa, agitata e depressa ma dopo quarantotto ore torno normale. Nella seconda stai inveendo contro di me dandomi della stronza e scervellandoti sul perché io abbia deciso di scriverti anziché guardarti negli occhi e dirtelo. In entrambi i casi, spero che tu non abbia ancora stracciato questi pochi fogli e che stia continuando leggere.

Ho chiesto il trasferimento a lavoro, torno a casa mia. Sono tre mesi che aspetto questo momento e finalmente è arrivato. Avevo anche provato ad accennartelo ma, come al solito, i tuoi capelli fuori posto erano più importanti dei miei inutili “problemucoli da femminuccia”.

Non voglio che tu ora pensi  io sia arrabbiata con te, che ti reputi una persona malvagia o quant’altro. Ho semplicemente deciso di cambiare vita.

La verità è che quando ci siamo conosciuti all’università tu eri devastato dai tuoi problemi esistenziali e credevi fossi la tua ancora di salvataggio. E lo sono stata. Credevo di essere felice, l’ho sempre pensato. Ti avevo preso per mano e insieme avevamo sorriso, e insieme abbiamo amato. Quello che non sapevo è che le ancore sono fatte per essere gettate a fondo, e tu mi hai gettata con una violenza inaudita. Un po’ come una spugna dopo aver lavato i piatti sporchi. E tu eri il piatto sporco, ed io la tua spugna. Ho assorbito il tuo nero dandoti indietro bianco senza mai chiederti nulla in cambio. Ho accolto il tuo amore sempre più sbriciolato pensando che fossi io il problema, pensando che fossi io a non essere abbastanza.

La verità, Amore, è che non è mai stato amore vero. Pensavamo di essere due formine complementari come in quei giochi per bambini, solo che io sono cerchio e tu un cubo pieno di spigoli. Sei entrato nella mia vita come un caterpillar nato per distruggere ed io ora esco dalla tua in punta di piedi, anzi di penna. Non siamo fatti per stare insieme ma ciò non ti rende peggiore, ma ciò non mi rende migliore. È semplicemente la verità, Amore. Io ho bisogno di sorrisi, di un tè caldo la sera e una carezza prima di dormire. Ho bisogno del mare sulle ciglia d’estate, di sudare scalando le montagne. Ho bisogno di sapere che se voglio partire, la persona al mio fianco è disposta a seguirmi. E vedi bene che adesso ho il coraggio di essere egoista, di non pensare innanzitutto ai tuoi problemi. Perché non mi riguardano. Perché ho la nausea delle tue inutili lamentele su come il lavoro ti distrugga, su come la tua vita non abbia senso.

Reagisci per Dio, alzati. A volte ho come l’impressione che tu ami crogiolarti nelle tue piccole disgrazie, nei tuoi drammi da soap opera. Ma io cerco il Sole, e tu sei nube che mi porta pioggia. Aveva ragione il nostro amato Battiato, arrivederci amore ciao le nubi sono già più in là. Ti prego non cercarmi, nemmeno io sono ancora riuscita a trovarmi. Sii semplicemente forte una volta nella vita, te ne prego. Abbi, da domani e per sempre, il coraggio di essere sfacciatamente felice come io, a tuo dire, so essere.

C’è un marron glacé nel frigo,

il nettare degli dei.

Tua,

Lady M.

Vorrei sapere chi ti ha ucciso

Vorrei sapere chi ti ha ucciso. Vorrei  conoscere chi ti ha tagliato in mille pezzettini e stringergli la mano. Lo inviterei a prendere un caffè, gli chiederei che arma ha usato, se un coltello da cucina o uno da barca. Il pugnale sarebbe troppo scontato, farebbe troppo professionista ma nessun professionista ti farebbe fuori. Sì perché tu hai sempre pensato di essere importante e invece, invece forse no.

Vorrei sapere chi ti ha ucciso e organizzare una festa, come quelle che fanno gli zingari quando muore qualcuno. Brinderei con un martini come piaceva tanto a te. Brinderei alla tua nuova vita chissà dove, chissà con chi.

Perché io sono convinta che esista la vita dopo la morte e tu ne sei la dimostrazione. Forse esiste pure la resurrezione. Così, penso, se t’incontrassi per strada ti chiederei di risorgere.

Alla fine qualcosa l’ho capito. Si può accoltellare l’anima senza ferirne la carne. Ed è strano ma me l’hai insegnato tu, l’ho visto su di te.

Vorrei conoscere chi ti ha tagliato in mille pezzettini e chiedergli come ha fatto a non lasciare segni, se ci sono tecniche particolari o basta seguire l’istinto. Gli chiederei se hai lottato o se sei rimasto imbambolato col tuo sorrisetto idiota.

Come ci si comporta davanti a un assassino? Uno che magari ti chiede di seguirlo, uno che premedita. Ci vuole un bel coraggio per resistere, ci vuole un bel coraggio per non lasciarsi andare a quello che crediamo sia il nostro destino, a farci uccidere. Ma non è che puoi pensare di essere lucido in quegli istanti, non è che se uno ti mette spalle al muro non hai scelta.

Ricordi il giorno del tuo assassinio? Mi chiedesti di non seguirti, che da solo andavi più veloce. Solo che non avevi calcolato lo schianto. Non avevi calcolato che la difesa non è mai stata il tuo forte, eri un animale da attacco, eri tu quello che faceva gli agguati, mai il contrario. E così ti sei lasciato uccidere come un povero stronzo qualunque.

È vero, non si dovrebbe parlar male di chi non c’è più ma concedimelo lo stesso. È dura riprendersi da un lutto quando realizzi che semplicemente, puff, non rivedrai più quella persona. È dura perché io sono della scuola “nulla si crea e nulla si distrugge”, ma la morte in un certo senso fa eccezione.

Sei stato un bello stronzo a lasciarmi qui col peso della tua scomparsa, senza preavviso come al solito. Un messaggio sarebbe stato apprezzato “ciao, vado a morire, è stato tutto molto bello”.  Perfetto, almeno uno lo sa e si prepara, almeno uno non lo viene a sapere da uno sconosciuto.

Ho creduto di vederti per strada certe volte, iniziavo a correre sorridendo ma poi mi ricordavo che non c’eri più e chinavo il capo. E dire che avresti potuto lottare, magari avresti pure vinto. Invece la paura ti ha paralizzato il cervello. Ti è mancato il fegato, forse l’avevi annegato in troppi martini. Così adesso io vorrei sapere chi ti ha ucciso e dirgli che è proprio un bello stronzo. Siete stati due egoisti. Non avete pensato a chi sarebbe rimasto qui ad affrontare la dura realtà, ma no certo in fondo dura poco un assassinio.  Meglio risparmiare le energie della lotta per un paio di drink. Bè io quei drink se t’incontrassi per strada te li tirerei in piena faccia, stronzo.

Non avere fretta.

Ci sono frasi che ti si attaccano dentro non sai nemmeno bene come. Vien da chiedersi se sia una questione di nodi, come se tutte le frasi che ascoltiamo cercassero di legarsi alle nostre sinapsi, ma solo alcune sapessero fare nodi da marinai, di quelli che si sciolgono solo quando lo decidi tu. Allora la nostra mente è davvero un porto di mare, noi vi facciamo entrare tutto e la selezione vien da sé. Ci sono frasi che ti si attaccano dentro e invecchiano con te.  Sono quelle che la notte a volte tornano, e t’addormenti col sorriso.

Sì, parlo proprio di quella frase che mi dicesti tu. No, sono sicura che non mi stai leggendo a meno che io non scriva da Dio, a meno che anche in paradiso prenda il wi-fi. Nel caso, la password è sempre la stessa.

Non avere fretta. Ci ho provato spesso ad ascoltarla. Non avere fretta. Avevi ragione, dannatamente ragione. Mi arrabbio sempre meno, conto fino a dieci prima di agire. Fino a cinque. Va bene, a volte solo fino a tre ma apprezziamo lo sforzo. E poi non scendiamo nel dettaglio, sai che ho sempre odiato i puntini sulle “i”, se ne stanno in alto a vigilare su quello stelo e si credono chissà chi. Vorrei incontrare un puntino e dirgli che io la “i” riesco a leggerla benissimo anche senza di lui, che scenda pure da quel piedistallo.

Non avere fretta. Giuro che mi sono impegnata, ma continuo ad impostare le lancette cinque minuti in avanti per non arrivare in ritardo. E sono talmente tonta che me ne dimentico e penso che il mondo viva cinque minuti indietro.

Nessuno mi ha mai fatto gli auguri di buon compleanno a mezzanotte, sempre almeno a mezzanotte e cinque. E in quei cinque minuti ci concentro la solitudine nel realizzare che il mondo ancora non si è accorto che sono un anno più vecchia, che ho almeno due nuove rughe d’espressione, che ho stappato lo spumante da un pezzo. Poi tutto passa, e io sorrido con un anno e cinque minuti di vita in più.

Non sei fatta per il quotidiano.

Avrei anche da ridire, sono una persona molto costante: faccio tre pasti al giorno tutti i giorni, il caffè al bar la mattina è la mia unica religione, dormo tendenzialmente tutte le notti.  È impossibile dire che non si è fatti per il quotidiano, un po’ come andare da un pesce e dirgli “bè non è che nuotare sia il tuo forte”. Non esiste, lo è per natura.

Dovrei smetterla di attaccarmi al significato letterale delle parole, dovrei guardare più lontano. Sarebbe così banale sottolineare che sono miope che ho deciso di non farlo. Che mossa astuta, no? Però in fondo è vero, in un certo senso non sono fatta per il quotidiano. Ho anche discrete difficoltà a scrivere la parola “stabilità”.

Vedi bene che nemmeno nel camminare l’equilibrio è il mio forte, possono testimoniarlo i miei sei tutori, la vecchia che mi ha soccorsa svariate volte sotto casa, la farmacista che si è comprata la casa al mare a forza di vendermi creme all’arnica.

Forse è vero, non sono capace di stare ferma. Mi muovo, faccio, disfo, viaggio, leggo, scrivo, strappo, inizio, devio, cambio, ricambio, salto, cado.

È un po’ come se l’equilibrio fosse la meta ultima, ed io non riuscissi mai a raggiungerla. Mi pongo obiettivi che so essere impossibili ed inizio a correre come una dannata, senza sosta. Corro, corro, corro fino al bivio. Se la lepre è troppo lontana mi fermo a riprendere fiato e aspetto qualcosa di nuovo, se la vedo ad un passo da me mi volto e inizio la fuga divertita.

Io e l’equilibrio flirtiamo senza mai concludere. Siamo due profumieri non v’è dubbio. Il problema non è il gusto della conquista, il problema è che tu, cara stabilità, non mi piaci abbastanza. Vorrei davvero poterti dire adesso che non è colpa tua, che sono io, che tu sei stupenda ed io mi pentirò di questa scelta. Ma la verità, la mia verità, è un’altra.

È che il giusto mezzo a me non basta, io voglio l’intero. È che anche il fiume prima di diventare pacato e sereno è stato cascata violenta ed energica. È che se tu sei la mia nuova alba, io adesso ho voglia di vedere quant’è buia la notte.

Ti dedico parole come di un innamorato, ti chiedo il tuo tempo. Ci sono frasi che ti restano dentro.

Ed allora io sono ad implorarti di aspettare, a pregarti di non avere fretta.

Non preoccuparti, sai bene che arriverò cinque minuti prima.