Mittente sconosciuto

Dicono che ci siano persone nate con la camicia, io mi definisco nato col mezzo tight.
Figlio di grandi imprenditori, aspetto gradevole, animo gentile. Dicono che ci siano persone più fortunate di altre, ecco io sono sicuramente tra queste. Ho sempre portato il dovuto rispetto alla mia condizione di privilegiato, non ho mai evaso nemmeno un centesimo, mi sono laureato a pieni voti e ho uno splendido rapporto con i miei dipendenti.
Io e mia moglie siamo sposati da tredici anni ma siamo innamorati come due fidanzatini.
Non preoccuparti, mi rendo perfettamente conto di poter sembrare odioso, che mi va sempre tutto bene nella vita.
Il fatto è che io credo di aver trovato l’essenza stessa dell’esistenza, quel sentimento così potente da influire davvero sul corso degli eventi.
Sto parlando della speranza.
Io vivo per dare speranza agli altri, per aiutarli a riempire quel bicchiere mezzo vuoto, per farli passare dal “andrà tutto bene” al “va tutto bene”.
La fortuna mi ha dato così tanto che credo che l’unico modo per ripagarla sia donarla agli altri.
Sabato è San Valentino e io, confesso, non è che ci creda poi molto. Ritengo in realtà che sia una festa frustrante per quelle anime che ancora non hanno trovato nessuno con cui condividere amore, con cui sorridere anche nel silenzio. Perché sinceramente a me che sono innamorato pazzo non frega un fico secco del 14 febbraio ma è negli occhi delle persone sole che leggo una tristezza infinita, un senso d’invidia e a volte rabbia verso gli occhi di chi, invece, ha il lusso di poter guardare l’amore negli occhi. È per questa ragione che io e Penelope, mia moglie, abbiamo deciso di celebrare la festa degli innamorati regalando speranza a chi crede di avere solo polvere nel cuore.
Ho fatto una lista dei miei dipendenti, dei miei amici e di tutte le persone sole e senza speranza che conosco. Abbiamo comprato della carta da lettere, rose rosse e molti francobolli. Ci siamo seduti alla macchina da scrivere, il romanticismo prima di tutto. Abbiamo scritto circa cinquanta lettere d’amore tutte diverse, tutte da ammiratori segreti. È da un mese che ci lavoriamo. In ogni riga abbiamo inserito dettagli veri delle persone, il modo in cui giocano con il tovagliolo quando sono pensierose, come bevono il caffè o si godono la loro passeggiata al parco. Abbiamo scritto Dio solo sa quanto, roba che di notte sogno il rumore dei tasti e l’odore dell’inchiostro.
Abbiamo scritto per far sognare persone che ad occhi chiusi vedevano solo il buio. Abbiamo scritto per non farli piangere a San Valentino mentre in un bicchiere di vino annegavano le loro delusioni, i loro amori perduti.
È vero, hai ragione, non abbiamo dato loro un amante, non gli abbiamo presentato l’altra metà della mela.
Tutto ciò che abbiamo fatto, o che ci siamo prospettati di fare, è stato magnetizzare l’ago della loro bussola, far sì che quel pezzo di ferro tornasse ad indicare la destinazione ultima, il nord.
Perché pensiamo che solo chi sorride sia in grado di sorridere, che solo chi è sereno sia in grado di accogliere senza se e senza ma il proprio nord. Perché pensiamo, in fondo, che se è vero che San Valentino è la festa degli innamorati, allora tutti abbiamo il diritto sentirci amati, d’innamorarci di quelle parole scritte da un ammiratore segreto che forse non si presenterà mai, ma a cui noi riserviamo un sorriso gentile.
Tu pensa che bello varcare la soglia del tuo bar di fiducia e pensare che tra tutte le persone sedute a chiacchierare ci sia qualcuno che il 14 di Febbraio ti ha spedito dieci rose rosse e un po’ d’amore in bianco e nero. Tu pensa che bello star lì sorridente pensando a chi potrebbe essere il tuo ammiratore segreto e accorgerti, ad un certo punto, che non avevi mai alzato lo sguardo dalla tazzina e che magari, per davvero, qualcuno che ti sorride di rimando c’è.

Manifesto per te.

Oggi non lavoro, oggi non studio, oggi manifesto per te.

Tu mi dirai che ascolto troppo quel gruppo di vecchi, i Bandabardò, e hai ragione.

Se mi rilasso? In realtà non saprei dirti, è troppo tempo che non lo faccio.

Scendo in piazza con i cartelloni, ci scrivo “conosci te stesso”.

Un bel gioco dura poco ed il marketing, in amore, non so a quanto serva.

Anzi guarda in questa manifestazione io ti faccio psicologia inversa, ti sbatto in faccia i miei difetti e tu scoprirai di amarli tutti, uno ad uno, come io faccio coi tuoi.

Sarebbe troppo facile dirti perché dovresti amarmi, sarebbe troppo ermetico un elenco vuoto.

E quindi eccoti qui il perché tu dovresti ridermi in faccia, ed eccoti qui perché non lo farai.

Non sono testarda, devi solo usare le parole giuste per convincermi a cambiare idea.

Amo litigare, proprio mi piace a livello viscerale. È che credo che la rabbia elimini ogni maschera, quando perdi il controllo riveli chi sei. Ed io mi sono innamorata perdutamente dei tuoi nervosismi. È bellissimo vedere il fuoco che nasce piano piano fino a che non riesci più a tenerlo, fino a quando i tuoi occhioni si accendono di luce pulsante anche se il meglio, si sa, è fare pace.

Sto sempre sulla difensiva. Da grande stratega quale sei, tu stesso m’insegnasti che la miglior difesa è l’attacco, chiediti ora perché a volte sento il bisogno di essere velenosa.

Me ne vado. Quando ho paura, me ne vado. È strano sai, mi capita solo con le persone. Sul lavoro per me esistono solo sfide, è quando incrocio sguardi cupi che inizio a tremare.

Non bevo vino scadente. Se ci pensi è un bel problema, però proprio non ce la faccio, piuttosto ceno ad acqua.

I calzini spaiati sono all’ordine del giorno. Neanche il mio cassetto dell’intimo riesce a sostenere una relazione stabile.

Ti amo. Questo poi è proprio il difetto peggiore, quello che sono anni che t’imponi di non vedere, di superare, d’ignorare. Io ti giuro che litigo un decimo di quanto facevo un tempo, ho imparato a fidarmi delle persone anziché partire prevenuta, le mie gambe non hanno più voglia di correre senza contare che ho, addirittura, bevuto un vino che anche per cucinare sarebbe stato imbarazzante.

Non ho mai smesso di amarti.

Sono qui, oggi, davanti alla tua università aspettando che tu esca da lezione e ho questo cartello in mano.

Conosci te stesso.

Mi sono organizzata, ho uno zaino da campeggio con tenda, fornellino e viveri in abbondanza per una settimana.

Io sto qui e non mi muovo. Se piove forse mi prenderò un raffreddore ma non m’importa perché mi si gonfieranno i capelli e tu potrai prendermi in giro dicendo che sembro una pecora pronta per essere tosata. Amo quando mi prendi in giro.

Conosci te stesso e scava a fondo, scava come questo chiodo tra i san pietrini.

Io, oggi e domani, sono qui ad aspettarti.

Manifesto per il tuo amore, questo è il manifesto del mio amore.

Verrà quel giorno.

Verrà quel giorno e ti guarderò negli occhi.

Tu già conoscerai le mie parole così che potrò tacere e cingerti tra le mie braccia finalmente sicure.

Verrà quel giorno e chiuderemo le palpebre guardando il futuro.

Mi stringerai, la mia aria sarà la tua aria così che consumeremo tutto l’ossigeno restando inspiegabilmente vivi, più vivi che mai.

Verrà quel giorno e indosserò un vestito verde, una primavera anche in pieno autunno.

Guarderemo quei paesaggi di cui siamo innamorati, con cui ci siamo innamorati.

Non so dirti quando, forse tra un’ora, forse tra dieci anni. Ma tu non disperare e io non dispererò.

Tu non smettere di crederci ed io ti seguirò.

L’avresti mai detto? Ora, ti dico, sì.

Prenditi il tuo tempo, concedimi il mio tempo. Lasciami riordinare casa prima di accoglierti, ti lascio scegliere i vestiti prima di giungere.

Sai che odio le mele, dunque ti dico che siamo due metà della stessa fragola.
Una fragola selvatica con tutti quei semini e il suo sapore che, se colta prematuramente, ti stordisce per l’acidità.

Ed è per questo che ancora la osserviamo, perchè abbiamo imparato ad aspettare la dolcezza della maturità.

Ed è per questo che morderla sarà tremendamente rosso, tremendamente bello.

Un frutto spontaneo non soggetto a regole.

E noi le regole le abbiamo infrante una ad una.

Verrà quel giorno ed è già un po’ più vicino.

Un capo che ritrovò la coda

Questa è una storia che non ha capo né coda. Questa è una storia senza drammi, senza colpi di scena, senza azione.

Se volete leggere di omicidi, di sangue e di battaglie, se volete leggere d’amore, allora non leggete questa storia. Se volete leggere di peccatori, di santi e di eroi, se vi piace il lieto fine, allora cambiate storia. Perché qui non c’è inizio e men che meno una fine. Qui non c’è amore né passione né tanto meno morte.

Questa storia in realtà è una somma di storie che contengono una storia ma, di per sé, non è una storia. Narra di un paese, un piccolo paese con più chiese che abitanti. Narra di uomini, donne e qualche bambino che si trovarono in un bar. Un bar in un paesino con più chiese che abitanti, un bar tutto sommato pulito, ben illuminato. Così ben illuminato che i nostri protagonisti di questa storia che non è una storia, dovettero abbassare le tapparelle. Ed è un dettaglio inutile perché le tapparelle abbassate non hanno alcuna importanza, forse.

Adesso la tensione è palpabile, il lettore si chiederà perché le tapparelle, che m’importa delle tapparelle se d’importanza non ne hanno? E questo è un grattacapo che ti leva il sonno, quel dettaglio che si pensa sia la chiave ma poi si scopre che non c’è nessuna porta. Allora si pensa che, se fosse inglese, almeno questa chiave servirebbe a qualcosa. Non perché l’inglese sia utile, bada bene, la chiave inglese lo è.

Questa è la storia di alcuni personaggi seduti in cerchio, anche se un cerchio propriamente non è, che si trovarono in un bar per ascoltare. E vien da chiedersi che cosa mai ci sia da ascoltare in un piccolo, pulito e ben illuminato bar di paese. Le chiacchiere delle vecchie, la macchina del caffè, le tazzine ancora calde.

Ora il lettore si sorprenderà di scoprire che i nostri eroi, i nostri eroi di questa storia che non è una storia, si trovarono in un bar per ascoltare un gran maestro. Che setta sarà mai una setta che si riunisce in un bar? Forse il circolo della canasta, il gran oriente della caffetteria. Si discuterà senza dubbio di miscele di caffè. Così il lettore rimarrà deluso scoprendo che di un arabo si parlò ma l’arabica mai fu nominata.

È inammissibile, si pensa, che dopo mezza pagina ancora non si veda una storia. Che non si dica, tuttavia, che non eravate state avvertiti. Uomo avvisato, mezzo salvato. E di salvati tra i nostri eroi ce ne sono ben pochi, anzi forse nessuno.

Questa è una storia in cui i personaggi, e il numero di personaggi sceglietelo pure voi, si trovarono in cerchio per ascoltare il gran maestro che raccontava storie, che raccontava come si scrive una storia. Una storia qualunque, che di logico non ha nemmeno il filo. Una storia di poeti, cantanti, geometri ed avvocati. Ognuno con una storia, anche se nessuno parlò della sua storia. E allora voi mi chiederete che senso ha scrivere una storia che non contiene una storia, una storia in cui uomini raccontano fatti, in cui son tutti un po’ matti, in cui non emergono sommersi né ci sono salvati. E vien da chiedersi se questa è una storia dove tre vecchi che vivono insieme decidono d’ammazzarsi così, perché così dice lo scrittore. Allora si scriva, perchè almeno nelle nostre pagine bianche si è avvocati, imputati e pure giudici. Così adesso dico che un personaggio aveva lunghi capelli blu, che uno le scarpe le portava solo d’inverno, che il muto per miracolo parlò. E poco importa se mi distacco di molto dal vero, perché il vero in una storia conta meno di un due di picche, a carte s’intende. Allora concludo e vi confesso che una fine non ce l’ho, ma l’inizio non è male. Decido dunque che sarà l’inizio, l’inizio di una storia che sarà una vera storia. Una storia in cui vedremo amore, passione e magari un po’ di morte. La storia di un capo che ritrovò la coda. Ma questa è un’altra storia.

Amore sincronizzato

Qualcuno una volta mi ha detto che l’innamoramento è come una cascata, un vortice di emozioni ed energia, una sensazione che ti fa sentire vivo dall’unghia del quinto dito fino alla punta dei capelli ma che, purtroppo, ha una fine. L’amore duraturo, invece, è più come un fiume, calmo ed infinito. Almeno ad occhio nudo. Ecco io sono sempre stata cinica, non è che abbia mai davvero creduto a questa favoletta dell’altra metà della mela. Che poi a ben pensarci sarebbe più carino dire che siamo due valve della stessa ostrica. E che l’amore è la perla al nostro interno. Lo so, dico di essere cinica anche se è evidente che da qualche parte mi sia rimasto un briciolo di romanticismo.  Ma questa è un’altra storia.

Oggi voglio parlarvi di un legame che non avevo mai visto prima, di una simbiosi tra due esseri viventi.

I protagonisti, nonostante sembri l’inizio di una barzelletta, sono un tedesco ed una scozzese. Lui è alto, un corpo statuario e occhi più dolci della panna montata. Lei è bassa, tozza, pelosa, ma è una tipa tosta. Lui si chiama Pablo, cacciatore per natura, modello per passione. Ha uno spiccato senso della protezione ma, è cosa nota, tutti lo amiamo per la sua non brillante intelligenza. Lei si chiama Giorgi, venderebbe l’anima per un po’ di cibo, compensa la bassezza con l’astuzia. Fashion victim di prim’ordine, porta sempre un ciuffo davanti agli occhi che, lei crede, le dona un aspetto misterioso. Lui è il braccio e lei la mente, una coppia che fa scintille. Lei pensa, lui agisce. Lei ha fame, lui le lascia finire il piatto. Lei ha paura, lui la difende. Lui vuole giocare, lei ringhia. Il loro legame è così simbiotico che anche i bisogni vengono fatti in sincro. Lui alza la gamba, lei si accovaccia al suolo. Lui fa la numero due, lei ci mette tutta l’anima per imitarlo. La loro vera grande passione rimane la caccia alle lucertole. Si divertono come bambini mentre corrono disperatamente dietro il rettile mal capitato. A vederli, va detto, viene da sorridere. Giorgi, cane multifunzione, ricorda un puff poggia piedi ma è utile anche come spazza pavimenti o come orsacchiotto di peluche. Pablo, al contrario, è il classico grande grosso e tonto. Quando lui cattura un riccio, e non chiedetemi come diavolo ci riesca perché va contro ogni legge fisica, lei ha il diritto di rubargli la preda. Diciamo che la loro coppia è molto bilanciata poiché gli evidenti complessi d’inferiorità di Giorgi (alta circa quanto una margherita), vengono compensati dalla galanteria del suo compagno. Lei, in cambio, lo fa sciogliere con un bacino sul muso. E in quel bacio c’è tutto l’amore, e negli occhi chiusi di Pablo c’è tutta la tenerezza.

Sono inseparabili, un duo comico che funziona solo nell’unione, due ingranaggi nati per stare insieme. Io credo che, se mai esistesse l’altra valva della mia ostrica, vorrei che la nostra perla fosse come quella di Pablo e Giorgi. Solo, non ho ancora capito se sarei quello alto e tonto o quella bassa e stronza.

Posso sognarti?

Ciao, scusa se ti disturbo a quest’ora tarda.. ti ho svegliata? È solo che mi chiedevo se potevo sognarti. Sto per andare a dormire e mi è venuto in mente il tuo bel visino. Solitamente l’ultimo pensiero che ho prima di chiudere gli occhi mi gira nel cervello tutta la notte così, ecco, mi chiedevo se ti dava fastidio che ti sognassi. No dico perché sono dieci anni che ti amo ma non ti ho mai vista nuda. Però magari sai il mio inconscio nel sogno potrebbe anche pensare di guardarti mentre dolcemente ti spogli ignara della mia presenza. Non ti bacerei, sai che non potrei mai senza il tuo permesso. Nemmeno nei miei sogni potrei mancarti di rispetto. Che cavolata, è limitante la mia educazione sai? Anche nelle mie fantasie tu non sei mia perché sarebbe come violarti, come farti un torto che rimarrebbe nella mia testa piccolo piccolo quasi invisibile eppure non mi lascerebbe più il coraggio di guardarti negli occhi. Posso sognare i tuoi occhi? Solo l’iride. Posso sognare i tuoi occhi e non svegliarmi più? Anche le tue mani, vorrei sognare anche le tue mani se non ti dispiace. Forse pretendo troppo, sono passati solo dieci anni da quando ho iniziato ad amarti. Non sarei mai così presuntuoso da pretendere la tua attenzione, tu sei Luna e io sono un infimo masso in fondo agli abissi. Tu guarda avanti e vola libera, io col mare negli occhi ti osserverò felice. Ho così tanto amore da darti che basta per entrambi. È per la mia salute che non possiamo vederci, il cuore si fermerebbe di colpo se tu mi sorridessi ancora come quella volta. E se il mio cuore si fermasse non potrei più amarti, che senso avrebbe vivere senza amarti? Che senso avrebbe morire se fossi obbligato a smettere di vivere per te? È molto tardi hai ragione ma non piangere. Io non voglio niente.  Voglio solo il permesso d’immaginare i tuoi begli occhi in cui tuffarmi. Solo una volta giuro. Mia musa, mio amore, mio tutto. Non sentirti in colpa, non dire nulla. Anzi è colpa mia che ti getto queste parole come un sacco dell’immondizia senza pensare che potrebbero ferirti. Lo fanno? Non badare a me, io sto bene al tuo solo pensiero, mi riempi come aria fresca nei polmoni, come luce di prima mattina. Ai sogni non c’è freno dici. E allora permettimi, solo per questa notte, d’immaginare le mie labbra che sfiorano le tue. È sapore di pesca amore mio. Ci vediamo nel mio sogno.

Fammi volare

Le sfide più grandi sono con noi stessi. La paura devi metterla da parte. Com’è che allora scende questa lacrima? Io sono più forte di te, sono più forte di me. Il segreto sta nell’accettare la sconfitta. Vieni dai prendimi per mano, fammi volare, fammi dimenticare cosa c’è oltre il vento. Chiudi gli occhi e assapora questo sale che si secca sulle ciglia, che ti bagna la pelle. Questo sole ti acceca non meno di un amore folle che non ti sai spiegare. C’è solo vento intorno a te, tra i capelli, nelle narici, nel cervello dritto al cuore. Lo senti tra le mani il Maestrale mentre la scotta ora brucia e tu la stringi, non mollare. Ci sei quasi, alza la deriva. Io mi sento alla deriva. Torniamo indietro, stiamo in mare ancora un po’. Fermiamoci qui ancora un po’. Puoi toccare fa male ma non troppo. Oggi ho visto una farfalla, mi volava intorno ai piedi quasi a dirmi vai avanti. Oggi ho visto un po’ d’acqua nei miei occhi quasi a ricordarmi che il mare ce lo portiamo dentro. Prendimi per mano, annulla tutto il resto. Fammi sentire il sibilo della velocità, fammi provare il brivido del controllo. Portami a bordo, non scendiamo mai. Dritti fino all’isola che non c’è,  dritti fino ai sogni dei miei giorni di Sole. Ho visto in faccia l’amore e gli ho dato il tuo nome. Ho visto in faccia l’amore e portava il tuo odore.
Ho un gusto un po ‘ amaro sulla lingua, ho sete di vento nelle vene.
Non mi fermare, voglio iniziare a volare.

Quando muore una stella

Forse a volte ci dimentichiamo che quando muore una persona famosa, muore innanzitutto una persona. Che dietro una macchina da presa, dietro le pagine di un libro, dietro un volto noto si nasconde un cuore con le sue gioie e i suoi dolori, coi suoi pregi e i suoi difetti. L’arte, ci insegna la storia, non ha cimiteri se non per i suoi interpreti, se non per chi la crea. La morte, a volte, sembra una gara a chi soffre di più,  a chi manda i fiori più belli, a chi sceglie le parole più appropriate. Ma, parafrasando uno scrittore famoso, io (non) sono Dio, io non posso giudicare il tuo modo di vivere il dolore né tanto meno pensare se esso sia veritiero. Perché è una questione privata, personale e se hai voglia di condividerla bè, l’accetto così com’è.  E se nemmeno sapevi chi fosse questa stella prima della sua morte, non sarai oggetto del mio astio se t’informerai sulla sua vita ben anche lo facessi solo per non stare zitto al bar con gli amici, ben anche lo facessi per avere più consensi. Perché in fondo può capitare che leggendo le sue frasi tu ti renda conto che quella persona era interessante, che vale la pena scoprire la sua arte. Ed è così che lo renderai immortale, è così che le opere sopravvivono. Perché ci sono persone che s’ interessano. Il tuo negozio di fiducia non ti chiederà perché stai comprando quel libro, quel cd o quel film. Sorriderà sperando che, forse, anche la morte serve all’arte. Perché se per i familiari, gli amici e i conoscenti chi muore è soprattutto un uomo, niente è forse per loro più gratificante di sapere che, anche nel dolore, c’è chi sorridendo dirà ancora “minchia signor tenente”.

Io sono poligamo. ( parte I )

Gentili lettrici, buongiorno.

Ho deciso di scrivere una lettera aperta a questo giornale perché io mi sono stufato, ne ho abbastanza. Per questioni di privacy inventerò luoghi e nomi, tuttavia i fatti e le sensazioni sono verititeri.

Dunque mi chiamo Guido, ho trentacinque anni e sono sposato da sette. Ho un lavoro che mi permettere di fare la bella vita, un bel cane in giardino e assolutamente nessun figlio. Qual è il mio problema vi starete chiedendo. Ecco il fatto è che io credo di aver troppo amore da dare. Sia chiaro mia moglie è una donna fantastica, cucina da dio, è simpatica, solare, forse ha qualche chilo di troppo ma chi di noi è perfetto?  Io no di sicuro. Il punto è che io non mi sento soddisfatto ad amare una sola donna, proprio non mi basta. Sarebbe come mettere il motore di una Ferrari sotto un Ciao, vedete bene che è sprecato oltre che pericoloso. E dunque io sono una persona estremamente generosa, dono il mio amore a molte donne. Credo che la mia unica colpa sia di essere nato a Monza e non in un paese a religione musulmana. Cosa ne posso se la poligamia mi scorre nelle vene più dei globuli rossi? Non faccio mancare nulla a nessuna delle mie donne, solo che di una proprio non riesco ad accontentarmi. E vedete io ne ho abbastanza di essere additato da quei catto-moralisti come “lo stronzo”, “il Don Giovanni”, “lo sciupafemmine”. È così difficile capire che il mio è puro altruismo? È così difficile capire che il mio è amore verso le donne? Perché vedete io sono stufo di sentirmi dire dalle mie amanti che sono un egoista, che penso solo a me stesso, che illudo tutte e poi resto sempre con mia moglie. Illudo di che? È forse illudere provare amore? Il mio ti amo è ben tangibile, basta vedere gli scontrini delle mie cene. Solo che ecco perché dovrei rinunciare a qualcosa? Sono in perfetto equilibrio con me stesso, mia moglie, le mie donne. Fine. Poi mica chiedo grandi sacrifici. Ho poche regole da far rispettare. Il lunedì sono i panzerotti a casa, il martedì vedo Clara per cena poi dritti a casa sua, il mercoledì calcetto con gli amici, il giovedì e venerdì a turno tra Marta e Sofia. Ovviamente i weekend sono a rotazione. Per le telefonate e i messaggini nessun problema in orario di lavoro ma la sera ecco, meglio evitare. Ora dico vedete bene che non c’è nulla di male, che tutto torna. Io non trovo alcun motivo logico per dover rinunciare anche ad una sola delle mie donne, delle mie abitudini. Perché vedete le femmine per quanto io le ami, va detto che non brillano per intelligenza. Non sono né particolarmente bello, né particolarmente simpatico. Eppure tutte s’innamorano, tutte s’illudono di diventare il motivo del mio divorzio. Ma io lo dico fin dall’inizio che con mia moglie sto bene, che sono poligamo per natura. E a loro va bene, fanno l’amore un paio di mesi, tutte dolci, carine, sensuali. Poi iniziano a lamentarsi, a dirmi “io ti aspetto ma devi scegliere”, “o me o lei”, “lasciala o con me hai chiuso”. E sono sette anni che mi minacciano. Voi donne che state leggendo, voi care signore non avete credibilità. Se un rapinatore mi chiede dei soldi con una pistola ad acqua, io gli rido in faccia. Poi ragazze mie io vi amo, vi amo davvero. Quante volte mi sveglio al mattino e vorrei una di voi al mio fianco, quante volte vi penso durante la giornata… ma voi non vi accontentate, mai. Pretendete troppo e non avete la forza di ottenerlo. Io sto bene così, ho imparato la tecnica. Basta rispondere “certo amore, ma sai è difficile, stiamo insieme da tanto, ci vuole tempo” e subito diventano come cagnolini che ti chiedono una carezza. Perché in fondo volete solo essere rassicurate da dolci parole, quasi aveste paura del vero grande passo. Poi mi dite che vi sentite in panchina, messe da parte, le numero due. Ma che scusa è? Lo sapevate fin dal primo istante, io la fede l’ho sempre portata. Come ordinare un gelato al cioccolato e poi stupirsi del fatto che, effettivamente, sa di cioccolato. Vedete bene che non ha alcun senso. Dunque, concludendo, se non riuscite a rispettare le mie regole, se non riuscite ad accontentarvi del mio sincero e devoto amore, andatevene. Ma senza fare minacce, scenate, serenate patetiche. Andatevene con classe, dicendo “io ne ho abbastanza, grazie di tutto è stato bello ma ora voglio qualcosa che tu non potrai mai darmi”, siate donne con le palle, siate le amanti innanzitutto di voi stesse. Questa lettera dunque, amori miei, è per dirvi che in fondo io sono solo la manifestazione della vostra insicurezza e ne sono ben consapevole. Vedete? Io mi accontento. So che il vostro non è sincero amore ma solo il tentativo di diventare la numero uno, eppure mica mi lamento, mica vi faccio patetiche scenate isteriche. Forse, in fondo, la sfortuna è la mia che dono il mio cuore e da voi non ricevo altro che complessi d’inferiorità. Amatemi, se potete. Amatevi, perché dovete.

 

Sorridi, sei in metro.

Fa caldo, di quel caldo umido che ti si appiccica addosso.  Il metrò è affollato ma son riuscita a trovare un posto a sedere. Quaggiù si vive di sguardi rubati, di nervosismi, di orologi consumati dalla fretta. Un sorriso, quello, è merce rara, una perla nera.
Davanti a me un uomo non la smette di guardarmi le scarpe manco avessi un paio di Jimmy Choo, sono solo Converse tesoro.
Una donna urla al telefono, suo figlio ha preso un altro brutto voto a scuola.  Un’anziana signora gioca col cane, ovviamente il vicino è inorridito dal terrificante e ferocissimo cocker, cos’ è in fondo un dobermann al suo confronto? Qualcuno stamattina ha dimenticato il deodorante ma per quante volte tu abbia già sentito quell odore, non ci puoi fare l’abitudine. Mai.
C’è uno strano silenzio. Qualche cigolio, la voce che annuncia le stazioni, uno strarnuto soffocato in un fazzoletto cifrato. 
L’uomo che mi fissava le scarpe di colpo guarda un punto indefinito e scoppia a ridere così, dal nulla. Ora può sembrare normale, a chi non capita di sorridere mentre si pensa a qualcosa di divertente? Il fatto è che è successo lì, nel regno dell’indifferenza, nella culla della solitudine condivisa, nel putrido vagone di un metrò.
E quest uomo aveva davvero dentro il sole in un luogo dove la luce naturale non arriva mai. Abbiamo forse tutti bisogno di qualcuno che sorrida per primo, che distrugga un tabù metropolitano, che rischiari i nostri sguardi bui. Perché poi, in fondo, lo sanno tutti che la risata è contagiosa tipo l’influenza. Pensa che bello se i giornali titolassero ” pandemia di risata, non vengono risparmiati nemmeno quelli senza denti, nemmeno quelli con l’apparecchio”. Pensa che bello se di colpo un intero vagone sorridesse perché un tizio a cui piacciono le mie converse non la smette di ridere da tre fermate.  Pensa che bello essere lì e per trenta secondi riuscire a dimenticare che i soldi sono finiti, che il lavoro non ti soddisfa.  Pensa che bello essere lì e  riuscire a pensare solo che sei pieno di luce.